TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


mercoledì 26 luglio 2017

Guy Debord nel caffè della gioventù perduta



Seconda tappa di avvicinamento alla giornata situazionista di Cosio d'Arroscia del 29 luglio. Oggi raccontiamo una pagina della vita del giovane Debord nella Parigi del 1951.

Giorgio Amico

Guy Debord nel caffè della gioventù perduta

Appena arrivato a parigi, il 16 ottobre Debord affitta una camera all'Hotel de la Facultè, in rue Racine, proprio nel cuore del Quartiere latino. Una sistemazione non proprio economica, la camera costa 14.000 franchi al mese, un prezzo proibitivo per uno studente, ma nel caso di Debord è la madre a coprire le spese. Da Cannes Paulette invia ogni mese al figlio 30.000 franchi, oltre a farsi carico delle sue necessità più minute. Per molto tempo dopo il suo arrivo a Parigi Guy invierà periodicamente per corriere la sua biancheria sporca alla nonna che gliela ritornerà per la stessa via lavata e stirata. Una bohème abbastanza confortevole, almeno per questo primo periodo , se paragonata alla condizione della maggioranza dei lettristi, veri marginali, costretti a vivere di espedienti e di piccoli furti.

Coerente con le tesi di Isou sul «sollevamento della gioventù» il movimento lettrista recluta dalla fine degli anni '40 dei giovani ribelli che rifiutano le convenzioni della vita borghese. Una gioventù marginale composta da artisti e intellettuali, ma anche da sottoproletari, immigrati nordafricani, minorenni scappate di casa, piccoli delinquenti e tossici. É questo l'ambiente in cui Debord si inserisce a Parigi e che, quasi alla fine della sua vita, rievocherà con nostalgia:

«Nel quartiere di perdizione dove giunse la mia giovinezza, come per completare la sua istruzione, si sarebbe detto che si erano dati convegno i segni precursori di un prossimo crollo dell'intero edificio della civiltà. Vi si incontravano in permanenza della gente che non poteva essere definita se non negativamente, per la buona ragione che non aveva alcun mestiere, non attendeva ad alcuno studio, e non esercitava alcuna arte. […] Questo ambiente di imprenditori di demolizioni, più nettamente di quanto avessero fatto i loro predecessori delle ultime due o tre generazioni, si era allora mischiato assai strettamente alle classi pericolose. Vivendo con loro, si fa in larga misura la loro vita. Ne restano evidentemente delle tracce durevoli. Più di metà di coloro che, nel corso degli anni ho conosciuto aveva soggiornato, una o varie volte, nelle prigioni di diversi Paesi; molti, certo, per ragioni politiche, la maggior parte tuttavia per reati o crimini di diritto comune. Ho quindi conosciuto soprattutto i ribelli e i poveri. Ho visto attorno a me, in gran quantità, gente che moriva giovane, e non sempre di suicidio, comunque frequente».



Questa identificazione con la piccola criminalità permette a Debord di demarcarsi ulteriormente dal suo passato di borghese agiato. Tutto ciò che è illegale l'attira: la droga, l'abuso di alcol, le ragazze minorenni, i piccoli delinquenti, le case di correzione, la prigione. Il tutto presentato come una reazione al processo irreversibile di decadenza della società, declamato come il manifesto programmatico di una generazione: «L'universo sta esplodendo. Andiamo da un bar all'altro offrendo a ragazzine fragili la mano come gli stupefacenti di cui naturalmente abusiamo».

Installatosi a Parigi Debord scopre Saint-Germain-des-Prés, il luogo di ritrovo dei giovani lettristi che si riuniscono in alcuni piccoli locali equivoci del quartiere, evitando con cura le zone alla moda, come i famosi caffè Flore e Deux Magots, frequentate dagli esistenzialisti:

« Per noi il quartiere finiva grosso modo davanti alla statua di Diderot. Lì davanti c'era un bistrot che si chiamava il Saint-Claude... Un poco avanti la rue de Rennes. Si imboccava la rue des Ciseaux, all'angolo fra la rue des Ciseaux e la rue du Four c'era un bistrot chiamato le Bouquet, un poco più lontano, rue du Four, c'era Moineau. Sul marciapiede in faccia, all'angolo della rue Bonaparte se non mi sbaglio, c'era un bistrot che vendeva patatine fritte e salsicce, la Chope gauloise; rue des Canettes, non la si frequentava allora ancora molto, ospitava già Chez Georges, un bistrot molto conosciuto. Dopo si ritornava per la rue du Four, c'era la Pergola, giusto in faccia, e l'Old Navy, un poco più lontano sul marciapiede, a centocinquanta metri dal Mabillon».

«Il mio quartiere è un'isola che nuota sulla Senna» aveva scritto Gabriel Pomerand, niente potrebbe rendere meglio di questo verso l'orgoglioso isolamento dei giovani lettristi e il loro totale rifiuto di un mondo che andava abbandonato:

«Parigi allora, entro i limiti dei suoi venti arrondissement non dormiva mai tutta, e consentiva alla dissolutezza di cambiare tre volte quartiere ogni notte. Non se ne erano ancora scacciati e dispersi gli abitanti. Vi restava un popolo che aveva fatto le barricate dieci volte e messo in fuga dei re. […] Era il labirinto migliore per trattenere i viaggiatori. Coloro che vi si fermarono due giorni non ne ripartirono più, o per lo meno finchè esistette; ma i più vi sono morti giovani prima di andarsene. Nessuno lasciava le poche strade e i pochi tavoli in cui era stato scoperto il punto culminante del tempo».

    Chez Moineau

Il quartier generale dei giovani lettristi è un piccolo bistrot, Chez Moineau, situato al numero 22 di rue du Four, che può contenere al massimo una cinquantina di persone. É un locale dimesso, frequentato da nordafricani e da piccoli malavitosi, dove si può sostare per giornate intere senza obbligo di consumazione, con pochi franchi consumare dei cibi mediocri e del pessimo vino e soprattutto restare al caldo nelle fredde giornate invernali:

«Moineau, era una specie di isola deserta […] là avveniva la scrematura più dura, la gente aveva paura d'andarci. Là, effettivamente, c'era il delirio. C'era l'alcol, c'era l'hascish...».

Moineau era un locale frequentato da magrebini, erano loro che nella Francia dei primi anni Cinquanta avevano importato l'uso di fumare l'hascish. Una frequentazione che non era solo mera trasgressione, ma anche precisa scelta politica, come sottolinea Mension: «Partecipare alla vita dei magrebini era un modo chiarissimo di prendere posizione contro la borghesia, contro i coglioni, contro i francesi». Luogo di incontri, di discussioni e di amori, dove l'ebbrezza alcolica equivale a una rivoluzione permanente, per Debord Chez Moineau diventerà negli anni del ricordo il «caffè della gioventù perduta».


(Da: Giorgio Amico, Guy Debord e la società spettacolare di massa, Massari editore, 2017)