TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


domenica 21 agosto 2016

Biamonti. Fantasmi oltre frontiera


Un vecchio articolo di Citati su Francesco Biamonti e la frontiera.

Pietro Citati

Biamonti fantasmi oltre frontiera


Settant' anni fa, le coste della Liguria orientale, ricordate in Ossi di seppia, erano il più famoso paesaggio metafisico della lirica italiana: i frangenti sulle rocce, le agavi, qualche pino distorto, la casa del doganiere, la voce del Mediterraneo. Negli ultimi libri di Caproni, un altro paesaggio ligure porta un segno metafisico ancora più acuto. Il viandante lascia la costa: dimentica il mare, come se non fosse mai esistito quel vasto specchio di barbagli e di illusioni; e si inoltra nella misteriosa e desolata regione delle colline, tra i radi torrenti. C' è un balzo improvviso: una scossa; e più avanza, più il viandante ha l' impressione che il suo viaggio lo conduca nelle ultime terre di confine, "nei luoghi non giurisdizionali", dopo il quale si estende l' Erebo - il regno al quale egli e noi tutti apparteniamo senza saperlo.

Nei libri di Francesco Biamonti, come nell' ultimo appena pubblicato (Le parole la notte, Einaudi), incontriamo l' altra, estrema Liguria: le colline che da Bordighera a Ventimiglia conducono verso la Francia e il Piemonte. Non c' è paesaggio più arido: rocce, argille, rovi, ulivi, mimose, un sorbo, un nespolo, un mandorlo, poche rose - muri a secco, case abbandonate. Tutto è spoglio: la frutta più vivace è "l' uva d' inverno, ancora attaccata alla vite, becchettata dalle passere". Strade non asfaltate, sentieri di polvere conducono chissà dove.



Ma presto volgiamo le spalle alla terra: perché la forza e la vita si sono concentrate sul mare, che è diventato il centro dell' universo. Non facciamo che osservarlo: la luce che si sposta sulle acque e le infiamma, le nuvole che le adombrano, i venti dolci o furiosi che risalgono verso terra. Ci sembra che, ormai, ogni filosofia e ogni conoscenza umana siano impossibili. All' uomo che abita qui, tra i pini e i sorbi, come a tutti gli altri che credono di vivere altrove e abitano qui, non resta che cercare di conoscere il mare, la luce, le trasformazioni della natura.

Non c' è più altro da conoscere e da sapere. Tutto sembra andato in frantumi: eppure la natura resta misteriosamente stabile, fedele a sé stessa, forse eterna. Molto tempo fa, qui è accaduto qualcosa di gioioso: un suono di campane ha illuminato le colline. Ora tutto sta per spegnersi: tutto è spossato ed esausto; queste colline vuote, queste strade che non conducono da nessuna parte, questi pochi viandanti, questi alberi storti sono il segno che il mondo è abbandonato da qualsiasi vita.

Gli dèi sono morti. Le idee non esistono più. Le passioni sono spente. I libri illeggibili. Gli uomini muoiono, o si uccidono - e forse non c' è nemmeno più la morte, perché quando si giunge di là si trova un Niente incredibilmente delicato e leggero, abitato da spettri che non osano aprire la bocca. Quante volte gli uomini hanno annunciato invano la fine dei tempi: ora essa è finalmente arrivata; e nessuna apocalisse la annuncia.


La notte, qualcuno passa ancora in questi luoghi. Emigranti clandestini arabi, o turchi, o curdi varcano la frontiera. Il mondo è divenuto una sola zona di frontiera; e non ci resta che varcare il confine, andare altrove e ancora altrove, in un perenne esilio da una patria e da un passato scomparsi, e da noi stessi che stiamo per scomparire. Ma sono davvero uomini quelli che passano la frontiera? O invece gli emigranti clandestini sono spettri, e qualche traghettatore d' anime li conduce in un Erebo ancora più irrevocabile di quello di Caproni? In ogni caso, di là non c' è nulla: nessuna casa, nessuna realtà, nessun conforto; forse nemmeno il regno dei morti.

Come gli altri libri di Biamonti, Le parole la notte è scritto sotto il segno della dea Omissione. Ogni pagina affonda nell' inespresso. Gli eventi sono cancellati - e sostituiti da quei minimi eventi che sono i cambiamenti di colore nelle foglie degli ulivi, o una rondine che raccoglie con le piume la rugiada, o la malattia delle rose.

I personaggi non dicono mai, o quasi mai, ciò che hanno in mente: ogni parola nasconde un silenzio profondissimo. I sentimenti e le sensazioni sono cancellati: oppure nessuna spiegazione li motiva. Solo qualche slancio lirico rivela i segreti dell' anima. Una mano spietata ed ascetica annulla ogni parola che non sia assolutamente necessaria; e a volte Biamonti pare sul punto di rinunciare ad esprimersi. Ma dietro questa superficie spoglia, quale straziante desolazione amorosa attende una risposta che non verrà mai. Il vuoto è animato da questo muto battere d' ali.


La Repubblica - 22 gennaio 1998