TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


venerdì 12 febbraio 2016

Nicla Vassallo, Del femminile come oggetto



Le donne rimangono sotto più punti di vista oggetti, mentre gli obiettivi femministi e delle filosofie femministe non sono stati conseguiti”.Una riflessione della filosofa Nicla Vassallo.

Nicla Vassallo

Del femminile come oggetto

Presso i Musei Vaticani, al cospetto della Scuola di Atene di Raffaello, la presenza di maschi/uomini risulta netta, netta se non fosse per un “ambiguo” individuo, a fianco di Parmenide: forse si tratta di Ipazia – non tutti concordano. Ipazia, certo, non era una donna oggetto, e così l’hanno brutalmente uccisa. Anche Diotima, prima di Ipazia, non raffigura, unica donna nel Simposio di Platone, nient’affatto una donna oggetto. Tuttavia, di tali donne la storia della filosofia ne ricorda ben poche: le donne sono state martoriate dai filosofi, con qualche eccezione a parte – Cartesio e John Stuart Mill, ad esempio.

Prendiamo Aristotele: le donne rimangono maschi menomati o mutilati; il loro essere femmine si deve alla mancanza di potenza; la loro femminilità coincide con la passività, e da passive vanno trattate, al pari di oggetti. E via di seguito con le generalizzazioni: rispetto agli uomini, le donne si attesterebbero impulsive, doppie, gelose, petulanti, spudorate. Avremmo potuto confidare in Tommaso, il santo, che invece in proposito si fa anche lui portatore dei pregiudizi aristotelici.

Pregiudizi che si replicano, con variazioni sul tema, nei cosiddetti “grandi” filosofi: stando a Kant, le donne non risultano in grado di azioni genuinamente etiche per carenza di senso del dovere (del resto, che etica può possedere un oggetto?); per Hegel, esse debbono venir rinchiuse in casa, in quanto prive di ragionamento universale, che si esige invece in ambito politico e pubblico (del resto, di quale ragionamento universale dispone un oggetto?); secondo Schopenhauer le donne permangono “per natura” inferiori rispetto ai maschi, in quanto, decretate perennemente infantili, manipolatrici e bugiarde, esse mancano di intelligenza e senso di giustizia (donne, pur sempre, oggetti); a parere di Nietzsche le donne sono un gingillo, utile solo a procreare e a rappresentare un mero passatempo per gli uomini (sono strumenti, proprio come alcuni oggetti).

Le donne simboleggiano dunque irrazionalità, o, se va bene, una razionalità che dipende dagli uomini. Non ritengo infatti causale che tra le filosofe si esaltino (con o senza ragione?) donne legate a filosofi di sesso maschile: basti menzionare Eloisa (con Abelardo), Simone de Beauvoir (con Jean-Paul Sarte), Hannah Arendt (con Martin Heidegger).

Alle emozioni, invece, specie se emozioni legate alla follia, le donne, poetesse, non filosofe, vengono destinate. Saffo (solo per menzionare qualche esempio) canta amori sublimi, per poi gettarsi da una rupe. La timida e sensibilissima Antonia Pozzi, divisa tra amori, sceglie la morte con barbiturici, a ventisei anni; scrive di eros e thanatos, con selvagge siepi/di amori: morire è questo/ ricoprirsi di rovi/ nati in noi. Sylvia Plath si uccide a trent’anni, con la testa nel forno (la testa della poetessa e il forno della moglie-madre) dopo aver cantato la morte:

Morire è un’arte, come qualsiasi altra cosa.
Io lo faccio in un modo eccezionale
io lo faccio che sembra un inferno
io lo faccio che sembra reale.
Ammetterete che ho vocazione.



Anne Sexton “sopravvive” più a lungo, ma a quarantacinque anni in un garage si intossica col monossido di carbonio. E, infine, non posso che menzionare lei, Virginia Woolf, non poetessa, bensì scrittrice poetica e folgorante, che opta a cinquantanove anni per una morte “tecnicamente” difficile: con le tasche ricolme di sassi, si lascia annegare nel fiume Ouse. Lei che aveva scritto Al Faro, e di acqua s’intendeva.

Se le filosofe prima menzionate si accoppiano e associano a uomini, con le poetesse il tutto non è immediato. Di Saffo si narra che amasse le donne. Sylvia Plath cosa c’entrava davvero con Ted Hughes? E chi si ricorda di Alfred Muller Sexton? Mentre di Virginia Woolf diremmo che nutrisse una reale passione per il marito Leonard, o per Vita Sackville-West?

Le donne che rifiutano categoricamente di essere considerate donne oggetto non hanno forse alcuna scelta se non il suicidio?

E, invece, gli omicidi? Si uccide, come distruggono gli oggetti. Prendiamo Dante che nel Canto V del Purgatorio, con Pia De’ Tolomei, ci porta nel girone di coloro che, a causa di una morte violenta, trovano il pentimento, una sorta di riabilitazione, in fin di vita. Che tipo di pentimento? Di Pia De’ Tolomei, uccisa dal marito, entro un contesto familiare, ci viene comunicata la dolcezza, insieme alla volontà di venir ricordata per una qualche sua fede. Benché in relazione al mondo terreno la sua indifferenza e il suo autocontrollo rimangano sospetti, perlomeno agli occhi odierni, il suo “ricorditi di me” ci addolora: Pia suscita in noi un desiderio, una necessità di protezione. Pia De’ Tolomei invoca aiuto, così come si dovrebbe fare. Anche se non fosse mai esistita e la sua fama si dovesse solo a Dante, la Pia rimane l’emblema di un entusiasmo divorato dalla violenza. Quante e quali Pie incontriamo quotidianamente senza saper nulla di loro, e senza che nulla ci raccontino? Le sconcertanti violenze degli uomini sulle donne, nel mondo, specie all’interno delle mura domestiche, si traducono raramente in denunce. Quali le loro cause e i loro significati? Se non sei una persona, bensì un oggetto di mio possesso, mi è lecito far di te quanto mi pare. E le donne sono persone?



A rispondere negativamente è una «femminista immutata», Catharine MacKinnon, che si domanda proprio se le donne siano oggetti o esseri umani, per concludere seccamente che non sono esseri umani.

Perché? Semplice la ragione. Se le donne fossero esseri umani, non sarebbero spedite in container dalla Tailandia ai bordelli di New York, o rapite in sperduti villaggi nigeriani e gettate poi sulle strade italiane; non sarebbero sessualmente schiavizzate; non lavorerebbero tutta la vita senza salario o con salari indecenti, costrette a svolgere mansioni pesanti, pericolose o avvilenti per troppe ore al giorno; non verrebbero infibulate, percosse, stuprate; non si pretenderebbe che sposino il proprio stupratore, né sarebbero accusate di rapporti sessuali fuori del matrimonio quando denunciano l’uomo in questione; non sarebbero indotte a suicidarsi per riparare l’onore della propria famiglia; non dovrebbero nascondersi dietro burka o simili indumenti; non sarebbero costrette nelle loro case come in prigioni; non subirebbero molestie sessuali e mutilazioni genitali (nella sola Africa vi sono tuttora tre milioni di bambine ancora a rischio di subirle, nonostante l’ONU abbia recentemente e finalmente bandito dette mutilazioni); non verrebbero messe a tacere, torturate, lapidate, decapitate, o uccise appena nate (l’infanticidio delle figlie femmine è ancora praticato). La lezione che occorre ricavare da questo elenco non è onorevole: le donne rimangono sotto più punti di vista oggetti, mentre gli obiettivi femministi e delle filosofie femministe non sono stati conseguiti. «Una stanza tutta per sé» e «cinquecento sterline annue» rimangono chimere.



MacKinnon si riferisce a cosa accade nel mondo in generale. Dando un’occhiata a cosa accade solo nel mondo cosiddetto occidentale, le immagini di donne da cui si viene bombardati/e sul piano mediatico si condensano troppo spesso in donne “leggere”, la cui reale consistenza è il corpo, non una mente ragionante; sono immagini normative che esplicitano chiaramente “questo è come la donna deve essere”; sono immagini che certo possono mutare e, difatti mutano, ma che rimangono sempre centrate sul corpo. Sull’oggetto.

Difficile fuggire dalla trappola. Non tutte le donne sono intelligenti, d’accordo. Ma molte tendono effettivamente a esaltare un’apparenza fisica “femminile”. E se ci pone come “cattiva ragazza”, ovvero si trasgredisce la norma maschile eterosessuale, nel non corrispondere (almeno in qualche senso) al concetto di donna vigente, si corre il rischio dell’esclusione, e l’esclusione non è facile da sostenere.

Il concetto di donna vigente nella nostra civiltà, specie in Italia, da una parte regala in effetti mere illusioni di stabilità e d’identità, e dall’altra è rigidamente monolitico: deve così essere in una società androcentrica, razzista, eterosessista, votata alla “normalità”. Come è sostenuto, giustamente a mio avviso, il rimedio alla donna oggetto non può che consistere nel delegittimare «a priori l’esplorazione della continuità esperienziale e della base strutturale comune tra le donne».

Del resto, molte donne, ma non tutte, cedono a venir meticolosamente assoggettate sotto diversi profili: economico, legale, politico, professionale, psichico, religioso, sessuale, sociale, e via dicendo. In modo diretto o indiretto, in misura maggiore o minore, ogni donna eterosessuale subisce commerci, devianze, etiche, leggi, identità, molestie, pratiche, politiche, violenze sessuali, oltre a doveri erotici, procreativi e riproduttivi, all’insegna di schemi rappresentazionali dettati da interessi sessuali. Ancora oggi. Che cosa specificare di più sulle donne oggetto?

Una certa normatività rimane deleteria e si converte comodamente in forme di vero e proprio autoritarismo sulla sessualità, in cui a rannuvolarsi rimane la sessualità delle donne. Diviene allora quasi scontato affermare con Monique Witting che, per esempio, le lesbiche non sono donne, perché il concetto di donna giunge a una piena elaborazione e assume un valore determinato solo nell’ambito di un atteggiamento normativo che obbliga la sessualità entro i rigidi schemi di un’eterosessualità in cui le donne vengono categorizzate, all’unico scopo di essere vessate. Si può anche concedere che si vessino gli oggetti, non le persone o gli esseri umani.

Ben si sa che, nel caso in cui non ci si comporti da donne oggetto o ci si consideri con consapevolezza donne non eterosessuali, sbalordisca sentirsi dire “tu non sei una donna”. Inquieta perché “tu non sei una donna” equivale spesso a “tu non sei una vera donna”, ove il termine “vero” maschera approvazione e disapprovazione. Proprio come quando affermiamo “la verdura di oggi non è vera verdura” intendiamo dire che tale verdura non è buona, quando diciamo “Valeria non è una vera donna” intendiamo dire che Valeria non è una donna “buona”: biasimiamo certi suoi atteggiamenti, comportamenti, ruoli che non rientrano nel concetto di donna “valido” e in uso in una certa cultura, a un determinato tempo, per considerazioni simili sul termine “real”).

“Tu non sei una vera donna” comporta essere disapprovate, e lo si è perché non si corrisponde al concetto di donna vigente, di cui fanno parte parecchi pregiudizi (e allora che concetto è?) sulle differenze tra donna e uomo, a partire dalle differenze sessuali. È possibile che tu non sia una vera donna solo a causa dei tuoi desideri sessuali, che non corrispondono a quelli che la donna dovrebbe normativamente nutrire. Dunque, tu non sei una vera donna poiché rifiuti di oggettificarti.

È allora errato decretare, se non si esigono donne oggetto, che la differenza sessuale sia una componente essenziale del desiderio sessuale, è cioè errato consentire il desiderio sessuale solo tra donna e uomo, o tra femmina e maschio – tra la donna e l’uomo, tra ilmaschio e la femmina. Eppure è forse proprio il fine di circoscrivere il desiderio sessuale al rapporto eterosessuale che rende la differenza sessuale necessaria al desiderio sessuale, a partire dal presupposto che il rapporto sessuale deve essere finalizzato alla riproduzione, piuttosto che all’amore e alle varie rappresentazioni vissute che dell’amore si possono offrire.

Il punto è che il maschio e la femmina, l’uomo e la donna hanno poca ragione d’essere, se con l’articolo determinativo intendiamo richiamarci a entità universali, al fine di catturare essenze maschili e femminili, che proseguono a incidere sulle donne rendendole oggetti. Tali entità/essenze possono trasformarsi in fonti di veri e propri azzardi, nell’azzerare la comprensibilità tra le tante differenze che corrono tra femmine e tra donne, così come le tante differenze che corrono tra maschi e tra uomini. La logore banalità dovrebbe venir sempre denunciata dalla buona filosofia, a partire dalle differenze tra femmine e maschi, tra donne e uomini, che la società rischia vieppiù di enfatizzare indebitamente, allo scopo di condizionare comportamenti e competenze declinate al “maschile” e al “femminile”, con donne oggetto in primo piano.

In fondo la donna rimane pura apparenza, una finzione al servizio dell’androcentrismo, del razzismo, dell’eterosessismo, della “normalità”, uno strumento normativo utile per imporre agli esseri umani di comportarsi in determinati modi, per avallare determinate pratiche e delegittimarne altre. L’idea che tutte le donne presentino similarità essenziali serve, per esempio, a legittimare il fatto che alle donne e agli uomini vengano assegnati ruoli culturali, professionali, sessuali e sociali distinti, che le donne debbano attenersi a canoni di genere cognitivamente diversi rispetto a quelli degli uomini, che i tratti fisici e psicologici delle donne debbano essere femminei, mentre quelli degli uomini mascolini.

L’essenzialismo ha senz’altro legittimato un certo convenzionalismo femminile, costringendo le donne al perbenismo, vietando loro la realizzazione completa delle loro potenzialità. Del resto, le donne rimangono oggetti. Ma esso ha soprattutto ratificato il dualismo uomo/donna, da cui sono aristotelicamente zampillati altri pericolosi dualismi: mascolino/femmineo, razionale/irrazionale, attivo/passivo, culturale/naturale, oggettivo/soggettivo, e così via.



Torno ancora, in conclusione, a MacKinnon sulle donne oggetto, una conclusione dura, eppure realistica, che tratta di pornografia:

«We define pornography as the graphic sexually explicit subordination of women through pictures and words that also includes (i) women are presented dehumanized as sexual objects, things, or commodities; or (ii) women are presented as sexual objects who enjoy humiliation or pain; or (iii) women are presented as sexual objects experiencing sexual pleasure in rape, incest or other sexual assault; or (iv) women are presented as sexual objects tied up, cut up or mutilated or bruised or physically hurt; or (v) women are presented in postures or positions of sexual submission, servility, or display; or (vi) women’s body parts—including but not limited to vaginas, breasts, or buttocks—are exhibited such that women are reduced to those parts; or (vii) women are presented being penetrated by objects or animals; or (viii) women are presented in scenarios of degradation, humiliation, injury, torture, shown as filthy or inferior, bleeding, bruised, or hurt in a context that makes these conditions sexual». (Non traduco, poiché questo inglese possiede una forza che in italiano si smarrirebbe.)

Alle donne la scelta, in quei luoghi, societari e civili, in cui la ragione è concessa.