TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


domenica 29 novembre 2015

Tragica alba a Dongo. La Resistenza negata del nostro dopoguerra



Riproposto il film del 1950 che racconta la morte di Mussolini. Andreotti ne impedì l’uscita: “Danneggia l’immagine dell’Italia”

Giovanni De Luna

Tragica alba a Dongo
La Resistenza negata del nostro dopoguerra


C’è un film sugli ultimi giorni di Mussolini  - Tragica alba a Dongo - che gli italiani non hanno mai visto. Fu girato nel 1950, negli stessi luoghi e con gli stessi protagonisti delle convulse vicende che portarono alla cattura e alla fucilazione del Duce. Ci sono le immagini della disadorna camera da letto in cui Mussolini e Claretta Petacci trascorsero la loro ultima notte, nella casa dei coniugi De Maria; compaiono in persona gli stessi De Maria, con lo sguardo smarrito di fronte all’ampiezza degli eventi; ci sono i partigiani, quelli veri, che arrestarono il convoglio della Wermacht e scovarono Mussolini in fondo a un camion, intabarrato in un cappottone tedesco. E soprattutto ci sono i luoghi (Dongo, Germasino, Musso, Giulino di Mezzegra) di un’Italia povera e contadina, villaggi aggrappati ai costoni del lago di Como, lividi di pioggia, a sottolineare un epilogo inimmaginabile per chi era abituato ai bagni di folla di Piazza Venezia e ai fasti imperiali delle adunate oceaniche.

Quel film non ottenne il visto della censura, «in quanto», era scritto in una nota, del 24 gennaio 1951, di Giulio Andreotti, sottosegretario di Stato, «si ritiene che possa ingenerare all’estero errati e dannosi apprezzamenti sul nostro Paese». Questa mancata autorizzazione ci restituisce con grande efficacia il clima politico e culturale dell’Italia di allora. A partire dal 1948 (e almeno fino al 1960) contro la Resistenza si avviarono infatti pesanti iniziative giudiziarie e furono mosse accuse di ogni tipo. Nelle istituzioni, e in particolare nella magistratura, si affermò un orientamento pregiudizialmente ostile che indicava nei partigiani i responsabili morali di una lotta fratricida, protagonisti di una pagina della nostra storia da rimuovere e dimenticare.



Su giornali conservatori come Il Giornale d’Italia o Il Tempo, i giudizi oscillavano tra l’ironico ridimensionamento delle figure degli antifascisti («rubagalline» e pronti solo ad andare in soccorso al vincitore) e le esplicite denigrazioni personali, con frammisti apprezzamenti sulla viltà («nascosti nei conventi vaticani») e ingiurie sulla loro mancanza «di onore». Era uno zoccolo duro di opinione su cui si plasmava fedelmente l’operato dell’intero apparato dello Stato, dei magistrati come dei prefetti, dei questori, di una intera burocrazia ministeriale, come quella dipendente dal ministero della Pubblica Istruzione che, per il decennale della Resistenza, il 25 aprile 1955, inviò una circolare solenne ai presidi di tutte le scuole italiane per invitarli a festeggiare, quel giorno, l’anniversario della nascita di Guglielmo Marconi.

Altro che Repubblica «fondata sulla Resistenza»! Per sopravvivere, l’antifascismo si costruì una sorta di nicchia difensiva, con una battaglia politico-culturale condotta all’insegna del «dovere di non dimenticare» che indusse molti ex-partigiani a farsi storici della propria memoria, a diventare «archivisti», gelosi custodi dei «documenti» che testimoniavano di una pagina di storia che troppo presto gli altri volevano cancellare.



Tragica alba a Dongo si inseriva in questo contesto. Il film era stato prodotto da una cooperativa di giornalisti, e la richiesta di autorizzazione per la proiezione aveva un tono dimesso («Narra obiettivamente e porta per la prima volta sullo schermo, nella nuda cronaca cinematografica dei fatti, cose, ambienti e uomini, così come apparvero e agirono in quelle tragiche giornate di aprile. Il tempo, i luoghi, i costumi e financo i gesti e le parole, caratterizzano il valore essenzialmente documentaristico di questa ricostruzione»), insistendo sulla sua oggettiva neutralità.

Una successiva lettera ad Andreotti, il 2 marzo 1951, era quasi una supplica: «I giornalisti in questione non hanno esitato a sacrificare in questa impresa tutte le loro economie personali, sì che un rifiuto ripetuto significherebbe, per essi, e per le loro stesse famiglie, la certa rovina, essendosi essi stessi, tra l’altro, anche indebitati pur di realizzare questo film. Vostra eccellenza, che proviene dal giornalismo, non mancherà di valutare a pieno e con competenza la portata di questo rifiuto…».



Niente da fare; Andreotti fu irremovibile. Contro la programmazione intervennero anche la famiglia Mussolini (con una diffida a «non alterare arbitrariamente nel detto film la realtà storica») e, successivamente il comune di Dongo («questa popolazione è sempre stata, per sé stessa, elemento di ordine sotto l’Alta guida di ben quattro Deputati, tre Senatori, più volte di un Ministro»).

E il film fu cancellato. Andò meglio ad Achtung! Banditi!, di Carlo Lizzani, che raccontava la lotta partigiana alle spalle di Genova, pure finanziato da una cooperativa di operai; giudicato in prima istanza «dannoso sia per i riflessi interni nel momento attuale, sia per i riflessi esterni in quanto ripropone, in tutta la sua asprezza, l’odio contro i tedeschi», in quello stesso 1951, pur tagliato e sforbiciato, il film arrivò comunque nelle sale. Pochi spettatori si accorsero che i partigiani combattevano con fucili di legno, abilmente riprodotti da artigiani locali; il ministero della Difesa aveva proibito che nelle riprese si usassero fucili veri, anche se disattivati.


La Stampa – 22 novembre 2015