TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


lunedì 4 agosto 2014

“La guerra non era finita”. Il dopoguerra e il movimento partigiano.

4 agosto 2014 - treno Italicus


















Negli anni di piombo agosto fu il mese delle stragi: Bologna (2 agosto 1980) con 85 morti e il treno Italicus a S. Benedetto Val di Sambro (4 agosto 1974) con 12 morti. Lo scopo era creare il terrore colpendo i treni nel periodo di massimo afflusso dei passeggeri. Una strategia mirata a creare il caos e a porre le premesse di un golpe che fermasse lo scivolamento a sinistra del Paese. Un progetto che aveva radici antiche. Una storia che inizia dal 1945 come risulta da questo articolo, ripreso dalla rivista dell'ANPI di Savona, di cui oggi pubblichiamo la prima parte.

Giorgio Amico

La guerra non era finita”. Il dopoguerra e il movimento partigiano.



1. Da Giorgio Pisanò a Giampaolo Pansa: “il sangue dei vinti”, storia di una menzogna.

In principio era stato Giorgio Pisanò, ex-tenente delle brigate nere catturato (e graziato) dai partigiani il 28 aprile 1945, a descrivere il primo dopoguerra come un'orgia di sangue in cui i vincitori si erano accaniti sui repubblichini vinti e ormai inermi. Agli inizi degli anni Sessanta Pisanò pubblica una serie di libri (Il vero volto della guerra civile, Sangue chiama sangue, La generazione che non si è arresa, Storia della guerra civile in Italia) rivolgendosi a un pubblico che va molto al di là dei limitati ambienti neofascisti ed ex-repubblichini.

Sono gli anni in cui il MSI cerca di uscire dall'isolamento e di presentarsi come affidabile argine anticomunista a un'Italia moderata spaventata dalle riforme del primo centrosinistra. Un' area di “benpensanti” che votano DC, ma sono ancora tentati da nostalgie monarchiche e populiste, di conservatori passati attraverso l'esperienza de L'uomo qualunque, di “liberali” all'italiana lettori dei libri di Guareschi e del settimanale Candido.

I libri di Pisanò si rivolgono a loro e presentano un dopoguerra da incubo in cui il Partito comunista imperverserebbe al Nord con­su­mando una lun­ghis­sima serie di omi­cidi poli­tici finalizzati, oltre che alla vendetta sui vinti, a seminare il terrore fra i borghesi per facilitare l'instaurazione di un regime sovietico. Una lettura allucinata della storia recente d'Italia che, oltre ad assolvere i fascisti dai loro crimini, alimenta risentimenti, odi e paure. Espressione di un anticomunismo delirante che dietro le lotte operaie (che proprio dal 1962 riprendono a crescere) e l'avanzata elettorale del PCI vede fare capolino l'ombra minacciosa dei carri armati russi. Paure e fobie che ritroveremo, ancora più virulente, dopo il '68 e l'autunno caldo, a sostanziare politicamente e socialmente la stagione buia delle stragi e delle minacce di golpe.

Ma negli anni Sessanta questo primo tentativo di revisione storica sostanzialmente fallisce, proprio per l'impetuosa crescita democratica e civile del Paese che non offre spazi di massa a nostalgie reazionarie. I libri di Pisanò circolano solo in ambito missino e nell'indifferenza generale. Nessuno studioso serio li riprende, nessun giornale importante li pubblicizza. Difficile persino trovarli in libreria.



Tutto cambia negli anni Novanta. Il crollo dei partiti della prima Repubblica e lo sdoganamento dei fascisti ad opera di Berlusconi facilitato anche da improvvide aperture di esponenti di sinistra (esemplari in questo senso le dichiarazioni dell'allora Presidente della Camera Violante) mutano radicalmente i termini della questione. Per la prima volta nella storia dell'Italia repubblicana non ci si vergogna più a dichiararsi di destra. La cosiddetta “maggioranza silenziosa”, che fino ad allora si era manifestata solo nel segreto del seggio, esce allo scoperto e riempie le piazze sotto le bandiere di Forza Italia e della Lega.

Nel riflusso generale delle lotte e nella crisi (identitaria prima che politica) della sinistra l'auto-narrazione neofascista sul “sangue dei vinti” trova finalmente modo di affermarsi presso il grande pubblico. Ripresa e rilanciata da Giampaolo Pansa che, dopo aver fatto carriera fiancheggiando la sinistra (e il PCI) si è riconvertito al nuovo verbo berlusconiano, trova finalmente un auditorio di massa acquistando autorevolezza e consenso.

Le tesi di Pansa (persino più volgari di quelle di Pisanò al quale si deve perlomeno riconoscere una indubbia coerenza personale e politica) conquistano in poco tempo (grazie anche a un tam tam mediatico impressionante da parte dei giornali e delle tv berlusconiane) le prime pagine dei quotidiani, diventano argomento dei talk show televisivi, alimentano una forsennata campagna anticomunista che ha come veri obiettivi la svalutazione della Resistenza come atto fondante la Repubblica democratica e la modifica in senso autoritario e verticistico della stessa Carta costituzionale.

Un nuovo e più insidioso tentativo di revisionare la storia secondo un'ideologia rozzamente anticomunista che, al di là della sua asso­luta incon­si­stenza sto­rio­gra­fica (Pansa non aggiunge nulla di nuovo in termini di documenti e testimonianze a quanto già conosciuto), rende impossibile una let­tura realistica del dopo­guerra ita­liano e delle sue complessità, a partire proprio dai temi scomodi (ma reali almeno fino al 1948) della mili­ta­riz­za­zione della poli­tica e della vio­lenza.

Lettura tentata invece con esiti assolutamente interessanti da alcuni giovani studiosi le cui opere, disponibili da qualche mese in libreria, offrono un quadro preciso e non ideologico della estrema complessità della situazione politica italiana (ed europea) nei primi anni del dopoguerra. Ci riferiamo in particolare a “Il continente selvaggio” dello storico inglese Keith Lowe, e ai libri di due giovani ricercatori italiani: “Le altre Gladio” di Giacomo Pacini e “La guerra non era finita” di Francesco Trento.



2. Il continente selvaggio. L'Europa alla fine della seconda guerra mondiale.

Tesi centrale dei neofascisti prima e dei revisionisti oggi è che in Italia per tutti gli anni Quaranta ci sarebbe stata una violenza politica diffusa e persistente, espressione lucidamente programmata della “doppiezza” togliattiana di un PCI che, pur muovendosi nell'ambito delle istituzioni democratiche, non ha realmente rinunciato al sogno della presa violenta del potere e che a questo fine mantiene apparati e strutture armate e segrete. Un partito che dirige organizzativamente e gestisce politicamente la violenza di frange estremiste (il “triangolo della morte” emiliano, gli omicidi della Volante rossa milanese e della cosiddetta “pistola silenziosa” a Savona, ecc) per regolare conti, intimidire gli avversari, acquisire potere e fonti di finanziamento. Il tutto utilizzando strutture e metodi affinati negli anni di una guerra partigiana ridotta, secondo questa lettura criminalizzante, a un'unica lunga sequenza di omicidi, rapine e stupri. Esemplare a questo proposito è l'ultimo libro di Pansa, Bella ciao. Controstoria della Resistenza, da qualche mese in libreria.

Inutile dire che le cose stanno in maniera molto diversa. Non tanto a livello di fatti, che la violenza fu come vedremo effettivamente diffusa e persistente in Italia e nel resto d'Europa, quanto per le linee interpretative. Non c'è dubbio che quelli del primo dopoguerra siano stati anni incredibilmente feroci, inimmaginabili oggi. Come dimostra il libro (uscito in Inghilterra nel 2012 e da poco tradotto) di un giovane studioso inglese, Keith Lowe, che analizza minuziosamente per 500 pagine la situazione caotica e violentissima di un'Europa uscita a pezzi dalla guerra. (Keith Lowe, Il continente selvaggio, Laterza 2014, 25 euro).

Scrive Lowe:

“Un conflitto di così vaste proporzioni quale era stata la seconda guerra mondiale, con tutti i focolai di contese civili minori che inglobava, non poteva arrestarsi di colpo, e ci vollero mesi, se non anni, perchè terminasse, e la fine arrivò a tappe, in momenti diversi nelle diverse parti d'Europa. (…) in Francia, per la maggior parte dei civili, finì (…) nell'autunno del 1944. In alcune parti dell'Europa orientale, al contrario, la violenza proseguì a lungo (…). Le guerre civili, inizialmente accese dalle mene naziste, continuarono a imperversare in Grecia, in Iugoslavia e in Polonia per parecchi anni dopo che la guerra principale era finita; e in Ucraina e negli Stati baltici i partigiani nazionalisti continuarono a combattere le truppe sovietiche fino ad anni Cinquanta inoltrati”.

Il problema è se dietro questa violenza diffusa esistesse un progetto politico complessivo finalizzato alla presa violenta del potere da parte di partiti comunisti eterodiretti di Mosca. Lowe dedica un intero capitolo del suo libro alla situazione in Italia e Francia, i paesi occidentali con i più forti partiti comunisti, proprio per verificare questa ipotesi. Per il nostro paese vengono presi in esame i fatti accaduti nel cosiddetto “triangolo della morte” emiliano. Le conclusioni dello storico inglese non lasciano margine a dubbi:

“Va sottolineato – scrive – che tutte le storie sopra citate sono episodiche, e non configurano una cospirazione comunista per impadronirsi del potere a livello nazionale (…): in realtà (…) i vertici del Partito comunista fecero del loro meglio per controllare le fazioni più violente delle sue frange estreme. Essi capivano benissimo – cosa che non facevano alcuni dei militanti – che (…) non esistevano le condizioni oggettive per la rivoluzione”.



Sintetizzando possiamo concludere che si riconosce l'esistenza in Italia almeno fino alle elezioni del 1948 e all'attentato a Togliatti di una violenza politica endemica, ma come conseguenza in larga parte inevitabile dello stato di confusione e anarchia tipico della crisi del dopoguerra e delle difficoltà ad uscire dalle tragedie vissute (la dittatura fascista e la guerra prima, la guerra civile poi) dal popolo italiano soprattutto al Nord.

Dunque nessuna strategia rivoluzionaria programmata e guidata dall'alto (i vertici del PCI), ma al contrario una situazione liquida abilmente sfruttata da chi nel quadro di una guerra fredda ormai apertamente dispiegata intendeva mantenere i lavoratori (e le loro organizzazioni politiche e sindacali) in uno stato di minorità e di marginalità. Lowe lo definisce “un clamoroso tentativo di intimidazione” del movimento operaio e popolare.

“Il governo italiano – scrive - lanciò un programma di misure anticomuniste per cui sindacalisti, ex partigiani e membri del Partito comunista furono arrestati in massa. (…) Dei 90-95.000 comunisti ed ex partigiani arrestati fra l'autunno del 1948 e il 1951, solo 19.000 andarono sotto processo, e solo 7000 furono trovati colpevoli di qualche reato; gli altri furono trattenuti per periodi variabili in «custodia preventiva». Furono i militanti più ostinati, e soprattutto gli ex partigiani, a essere trattati con la massima durezza. Dei 1697 ex partigiani arrestati fra il 1948 e il 1954, 884 furono condannati a un totale di 5806 anni di galera. (…) Certo è che questo «processo alla Resistenza» fu molto più severo di quanto non fosse mai stata l'epurazione dei fascisti. Il messaggio era chiaro: gli «eroi» del 1945, che avevano liberato il Nord d'Italia dal governo fascista, erano diventati alla fine il nuovo nemico”.


Continua