TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


lunedì 23 dicembre 2013

L'esoterismo di Dante, 2. Beatrice e i Fedeli d'Amore

Dante Gabriele Rossetti, Beata Beatrix (1864)

























Seconda parte del saggio di francesco Lamendola sull'esoterismo di Dante.

Francesco Lamendola

L’esoterismo di Dante (seconda parte)

Leonardo Bruni, nella sua Vita di Dante (1436), lamenta la parsimonia del Boccaccio nel narrare la vita pubblica e politica di Dante e ironizza sulla loquace facondia con cui si è soffermato sugli amori fanciulleschi della Vita nova. Il Filelfo, sempre nel ‘400, come il Buti nega la fisicità di Beatrice e sembra piuttosto suggerire che sia un simbolo criptico, idea che sarà ripresa dal Rossetti. Tanto andava ricordato per evidenziare che non tutti i commentatori di Dante, e non subito, accettarono la storia di un amore di Dante per una donna ben precisa chiamata Beatrice, da lui vista la prima volta bimbo di nove anni e rivista, restandone per sempre folgorato, a diciotto.

Nel 1723 il canonico Anton Maria Biscioni, nei suoi “Studi danteschi”, torna a negare la fisicità di Beatrice e ne fa un simbolo di sapienza, paragonabile alla Sapienza di Salomone. Ma è Gabriele Rossetti, carbonaro e Rosacroce (1783-1854), letterato e padre dei poeti in lingua inglese Dante Gabriele e Christina, che per primo imposta in termini complessivi le problematiche relative a Beatrice e a tutto il Dolce Stil Novo, interpretandole in chiave allegorica. I suoi studi danteschi sono raccolti nel Commento analitico alla Divina Commedia del 1826-27, e nei Ragionamenti sulla Beatrice di Dante del 1842, ch’egli pubblicò a Londra ov’era esulato da Napoli in seguito alla repressione dei moti del 1821. In essi sostiene l’appartenenza di Dante a una setta segreta detta dei Fedeli d’Amore, il cui fine era una riforma radicale della Chiesa in senso ghibellino e antipapale. Ad essi si deve aggiungere Il mistero dell’Amor platonico nel Medioevo (5 voll., 1840) e ancora Sullo spirito antipapale che produsse la Riforma e sulla sua segreta influenza ch’esercitò nella letteratura d’Europa e specialmente d’Italia, come risulta da molti suoi classici, massime da Dante, Petrarca, Boccaccio (1823).



Rossetti vuol dimostrare che, al tempo di Dante, esisteva fra il popolo e fra le persone colte uno spirito antipapale largamente diffuso, e che non solo Dante, ma anche gli stilnovisti e, poi, Petrarca e Boccaccio condividevano in pieno tali sentimenti, sia pur in una prospettiva interna alla cristianità. Tuttavia la durezza con cui la Chiesa perseguitava i propri oppositori e ogni forma d’eresia, culminata nella crociata contro gli Albigesi del 1208-29 e negli eccidi condotti da Simone di Montfort, aveva indotto a una maggiore prudenza gli oppositori del papato. Di qui la necessità di un linguaggio criptico, allegorico e anagogico, che potesse venire inteso dagli affiliati ma il cui senso sfuggisse all’occhio vigile dell’Inquisizione. Insomma, Dante cercava, con la sua opera, di favorire un potente rinnovamento della chiesa cattolica ed era pertanto entrato a far parte di una setta, i “Fedeli d’Amore”, i cui seguaci fingevano di sospirare per delle donne angelicate (la Beatrice di Dante, la Laura di Petrarca, la Fiammetta di Boccaccio), che simboleggiavano i loro ideali politico-religiosi. Servendosi di un lessico particolare, detto “della Gaia Scienza”, e simulando l’amor platonico per altrettante donne, questi poeti (e i trovatori provenzali prima di loro), avevano fatto propria un’antichissima sapienza segreta, o meglio la tradizione di una sapienza occulta risalente agli antichi Egiziani e ai Greci e proseguita dai manichei, dai patarini e dai poeti siciliani della corte di Federico II.

Rossetti identifica quindi Beatrice con la filosofia e sostiene che Dante, nel suo poema, sotto la forma della dottrina cattolica esprime una filosofia essenzialmente pitagorica; e accentua al massimo, per la natura stessa della sua interpretazione di Dante, il valore di un’esegesi imperniata sull’allegoria fin nei singoli versi, parole e sillabe, non solo della Commedia ma della Vita nova (l’espressione “Fedeli d’Amore” ricorre più volte in quest’ultima, a partire dal sonetto “A ciascun’alma”, III, 10-12), esponendosi così alla critica di voler forzare il testo dantesco: e tuttavia supportando le proprie convinzioni con un bagaglio imponente di studi cui dedicò quasi l’intera sua vita.



Le idee del Rossetti sembrano morire con lui, nel 1854, sprofondando rapidamente nell’oblio, mentre nella seconda metà dell’Ottocento si moltiplicano i commenti alla Divina Commedia in chiave rigorosamente ortodossa, con relative cattedre di dantologia. Ma nel 1865 esce un libro di Francesco Paolo Perez, Beatrice svelata, che riprende molte tesi care all’interpretazione esoterica di Dante e, in particolare, l’interpretazione di Beatrice con la Sapienza Santa del libro salomonico. Oltre che letterato, il Perez è stato deputato, senatore, ministro del Regno d’Italia; pure, nemmeno la sua autorevole figura di studioso riesce ad aprire una breccia negli ambienti dantisti tradizionali.

Tale tentativo è ripreso, con sommo vigore, da Giovanni Pascoli, che pubblica nel 1898 Minerva Oscura, nel 1900 Sotto il velame e nel 1902 La mirabile visione, un vasto tentativo esegetico dell’opera di Dante dal quale il poeta romagnolo si aspettava riconoscimenti che non arrivarono e al quale aveva atteso con la massima serietà, ripromettendosene gloria imperitura. “Ti assicuro – scriveva a un amico giornalista – che il mio libro spiega i misteri della Divina Commedia, per la prima volta, dopo seicento anni!”. Ma la cultura ufficiale non accolse bene il lavoro del Pascoli e, pur tributandogli larghi riconoscimenti per la sua poesia in lingua italiana e latina, lasciò cadere nel silenzio la sua esegesi dantesca.



Un discepolo del Pascoli, Luigi Valli, volle ritentare l’ardua fatica. Nato a Roma nel 1878, morto a Terni nel 1931, professore di filosofia nei licei, Valli riprende la lettura esoterica dell’opera di Dante che era iniziata col Foscolo e culminata nel Rossetti, nel Perez e nel Pascoli, peraltro non più in chiave eterodossa, neopitagorica e ghibellina, come i suoi predecessori, ma anzi “supercattolica”. Nelle sue ampie e minuziose opere, L’allegoria di Dante secondo Giovanni Pascoli (1922), Il segreto della Croce e dell’Aquila nella Divina Commedia (1922), La chiave della Divina Commedia (1925), Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore (2 voll., 1928-30), La struttura morale dell’universo dantesco (1935, postuma), riprende la tesi dell’appartenenza di Dante alla setta dei Fedeli d’Amore; la natura puramente simbolica di Beatrice, rappresentante la Sapienza mistica del “Cantico dei Cantici”; la funzione salvifica concomitante della Croce (= Chiesa) e dell’Aquila (= Impero) nei due campi della vita attiva, presieduta dalla giustizia, e di quella spirituale e contemplativa, di cui è scopo appunto la sapienza santa.

Duramente contrastate da un coro di critiche degli ambienti accademici e “ufficiali”, e particolarmente da Natalino Sapegno, le tesi del Valli non ebbero miglior fortuna di quelle del suo maestro. Contribuì forse a ciò l’atmosfera mistico-irrazionalistica della visione filosofica generale del Valli, su cui si esprime con appena dissimulata antipatia il giudizio di Eugenio Garin, che lo accomuna al pensatore anarchico Max Stirner e al “fondatore” del nazionalismo italiano Enrico Corradini, in un terzetto stranamente assortito. E tuttavia al Valli si deve il merito di una più rigorosa collocazione storica di tutta la problematica relativa all’esoterismo di Dante. “La questione dei Fedeli d’Amore – afferma lo studioso romano – non s’inquadra nel suo spirito fra le cortesie feudali e i canti di calendimaggio. Si deve inquadrare fra la strage degli Albigesi e quella dei Templari.” (Il linguaggio segreto ecc., p.147). Vedremo fra breve che l’interpretazione “templare” di Dante ha avuto poi, e conserva ancor oggi, non poco interesse fra gli esegeti eterodossi del divino poema.

Le tesi del Valli sono state, a loro volta, riprese con forza da Mario Alessandrini, convinto sostenitore dell’appartenenza di Dante alla setta segreta dei Fedeli d’Amore insieme a tutti gli altri stilnovisti e, poi, a Petrarca e Boccaccio (che avrebbe a bella posta volgarizzato l’identificazione di Beatrice con Bice Portinari, per meglio fuorviare l’Inquisizione). L’Alessandrini ha esposto le conclusioni della sua ricerca in due opere significative ma, anch’esse, passate sotto silenzio dalla critica accademica: Cecco d’Ascoli del 1955 e Dante fedele d’Amore del 1960, in cui ricapitola efficacemente l’intera questione.



Fra gli studiosi stranieri del ‘900, bisogna a questo punto fare il nome di un grande esperto di filosofia orientale ed esoterica, quello del francese Réné Guénon (1886-1951), che accanto a opere fondamentali quali Il Re del Mondo, La Grande Triade, Simboli della Scienza sacra, ha dedicato alle questioni che qui ci interessano un sintetico ma efficacissimo saggio, L’esoterismo di Dante, pubblicato per la prima volta nel 1925. Guénon accentua l’interpretazione allegorica e anagogica di Dante, mettendola in relazione con diverse tradizioni esoteriche e, in particolare, col templarismo. Egli ricorda che il Museo di Vienna [o piuttosto di Vienne, in Francia?] custodisce due medaglie: una raffigura Dante, l’altra il pittore Pietro da Pisa; sul rovescio di entrambe sono incise le lettere F.S.K.I.P.F.T., che egli interpreta come Fidei Sanctae Kadosch, Imperialis Principatus, Frater Templarius. Dante, secondo lui, era probabilmente uno dei vertici della società segreta della Fede Santa (equivalente ai Fedeli d’Amore del Valli), un Ordine Terziario di affiliazione templare, i cui dignitari portavano l’appellativo di “Kadosch”, parola ebraica che significa “santo” o “consacrato” (e conservata ancor oggi negli alti gradi della Massoneria). Non a caso, per Guénon, Dante prende, come guida finale nel “Paradiso”, San Bernardo di Chiaravalle: colui che era stato l’ispiratore della Regola dei Templari.

Pagine affascinanti scrive inoltre il Guénon a proposito della cronologia del viaggio ultraterreno di Dante, nel capitolo “I cicli cosmici”, che non possiamo qui esporre in dettaglio per la loro estrema complessità astronomica e matematica. In esse egli sostiene che la data del viaggio descritto nella Commedia, il 1300, si colloca nel “grande anno” (a metà di un ciclo completo della precessione degli equinozi), ossia il tempo che gli antichi consideravano come equidistante fra due successivi rinnovamenti del mondo. E prosegue: “Situarsi al centro del ciclo vuol dire dunque situarsi nel (…) luogo divino in cui – come dicono i musulmani – si conciliano i contrasti e le antinomie; è il centro della ruota delle cose, secondo l’espressione indù, o l’invariabile centro della tradizione estremo-orientale, il punto fisso intorno al quale si compie la rotazione delle sfere, la mutazione perpetua del mondo manifestato. Il viaggio di Dante si compie secondo l’asse spirituale del mondo; soltanto di là, in effetti, si possono vedere tutte le cose in modo permanente, in quanto siamo anche noi sottratti al cambiamento, e averne di conseguenza una visione sintetica e totale”.

Anche l’inglese Robert L. John, col suo Dante templare (1987), propone una nuova interpretazione della Divina Commedia, sostenendo comunque l’ortodossia del poeta fiorentino, sia pure in chiave fieramente antipapale (cioè antitemporalista). Il John riprende la tesi del Rossetti e del Valli sulla setta dei “Fedeli d’Amore” e quella di Guénon sul templarismo di Dante, e compie il passo ulteriore, sintetizzando le due linee interpretative: per lui i “Fedeli d’Amore” altri non erano che i Templari perseguitati e costretti, dopo i sanguinosi processi del 1307-12 voluti dal re di Francia Filippo il Bello, a raddoppiare di prudenza nelle loro parole e nei loro scritti, ricorrendo a un simbolismo sempre più spinto.

(continua)

(Da: www.centrostudilaruna.it/)