TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


domenica 22 dicembre 2013

Le illusioni d'Itaca



E' tradizione a Natale regalare libri. Lo facciamo anche noi, riproponendo Le illusioni d'Itaca, una storia ambientata nel Ponente ligure a cavallo fra Francia e Italia. Il libriccino, pensato come regalo di Natale per alcuni amici, fu poi pubblicato nel 2005 da un piccolo editore milanese.

Giorgio Amico

Le illusioni d'Itaca

I. La casa sulla collina

Sapeva di essere arrivato. Nonostante gli anni trascorsi non aveva dimenticato nulla di quella terra. Dal vecchio borgo giù in basso sino alla sommità del monte, che chiudeva la valle, tutto gli era familiare. Ogni metro di quel sentiero, ogni passo del suo snodarsi sinuoso lungo la collina fra i campi terrazzati un tempo coltivati ed oggi in abbandono, ogni roccia, ogni albero, tutto gli ricordava qualcosa. Era come se il tempo per lui non fosse passato. Come se non fosse mai andato via.

La sua casa era lì, al limitare del bosco, appena oltrepassato l'uliveto, quasi ai piedi della montagna. Un tratto ancora di strada e poi, dopo l'ultima svolta, gli sarebbe apparsa: sgangherata casa di frontiera tra mare e cielo. Ricetto di memorie che da tempo ormai non sentiva più come sue. Saliva a passi lenti. Eppure c'era stato un tempo, lo ricordava bene, in cui aveva percorso quel viottolo di corsa, senza provare fatica, forse anche con gioia. Ma ora si sentiva stanco.

Si fermò, si accese una sigaretta e si voltò a guardare verso il basso. Sotto di lui la città brillava nella limpida luce del mattino: una grande macchia grigia allo sbocco della valle. Dalle due alte ciminiere gemelle della centrale elettrica si alzava, più lontano sulla costa, un sottile filo di fumo bianco. La solida superficie del mare di Liguria, che intravedeva in lontananza dietro la linea verde delle colline, gli ricordò altri mari che aveva navigato in una delle sue tante vite.

Da giovane era stato marinaio. Per anni aveva vagabondato per gli oceani su vecchie carrette corrose dalla ruggine. Ricordava ancora bene l’emozione del primo imbarco. L’avventurarsi in mare aperto, con la costa alle spalle che lentamente si dissolve, fino a trovarsi sospesi nell’azzurro del cielo e del mare. Il sentirsi una cosa sola con la nave, con l’ansare ritmico dei motori, con il metallo vibrante delle paratie.

Ora, dritto sul ciglio del sentiero, lo sguardo perso lontano, il richiamo azzurro dell’orizzonte lo riportava ancora una volta indietro lungo le rotte insidiose della memoria. Ripensava ai Doca de Alcântara, a come li aveva visti la prima volta immersi nell’alba bianca di Lisbona. Si perdeva di nuovo nel caos mediterraneo di Fos, nel frastuono caotico di Malta. Risentiva sulla sua pelle il vento odoroso che spazza i moli di Genova, il calore del sole accecante delle isole dell’Egeo. Ricordavava le guardie interminabili passate a scrutare la notte dai finestrini della plancia. Riviveva i fortunali estivi e le tempeste invernali che squassavano la nave, i colori incandescenti delle albe radiose dei Tropici. Tempi di gioventù, tempi di solitudine. Unica compagna di allora era stata la poesia. Ma in mare si era sentito libero come mai più dopo gli era successo.



Quel tempo era passato per sempre, ma da allora si portava dentro visioni di bettole fumose nei porti del Mare del Nord, d’assolati pontili in Oriente, di tempeste terribili sulle rotte dell’Atlantico. Visioni che non lo abbandonavano. Echi dell’assordante rumore delle gru, del ronfare sordo dei motori, delle grida degli uccelli marini. Reminiscenze d’amicizie virili cementate dalla fatica e dal pericolo. Immagini di volti induriti dal lavoro e dalla salsedine. Nomi di uomini di ogni razza e di ogni paese, come lui in fuga dalla terraferma. Uomini soli, inseguiti dai ricordi. Marinai.

Si riscosse. L'odore antico della campagna, unito alla calda luce del sole, aveva in quel mattino d’estate un qualcosa d’inebriante che riempiva l'animo. Si sentì rassicurato e riprese a salire lungo il sentiero. Dal paese sottostante, dove aveva lasciato l’auto, lenta riecheggiava sulle balze assolate la campana di mezzogiorno. Ricordo di un tempo ormai passato in cui gli uomini di quella valle trascorrevano l’intera loro vita curvi su quelle fasce avare e lo scampanio delle chiese dei villaggi scandiva quotidianamente quella pena, annunzio di un domani simile all’oggi, sempre eguale nella sua immutabilità, senza speranza. Ben altra era oggi la condizione materiale. Le numerose villette sparse sulle colline stavano a testimoniarlo. Ma forse più aspra ancora era diventata la solitudine, più lacerante la pena, nella totale dissipazione dei legami che per secoli avevano comunque tenuto uniti quegli uomini, conferito loro un’identità che nessuno oggi era più in grado di ritrovare.

Perso in queste considerazioni, gli arrivò, inaspettato nel calore estivo, l'odore del fumo. Un odore amaro di legna d'ulivo che gli annunciava che la sua meta era vicina. Ed infatti, girato l'angolo, la casa era lì, proprio come per anni l’aveva vista nel ricordo: quattro vecchi muri di pietra messi di sghimbescio a poca distanza dal sentiero che andava a perdersi più in alto fra le rocce aspre del passo. Nulla pareva cambiato: una casa grigia, divorata dall’edera, con le lose del tetto smangiate dalla salsedine e dai licheni. Una casa del tutto simile a tante altre in quella valle, ma in una cosa diversa, unica: era la sua casa, il luogo dove era nato e cresciuto.

























Mentre lentamente percorreva il vialetto, che conduceva all’ingresso, si accorse che all'interno qualcuno trafficava. Attraverso le finestre aperte gli giunsero rumori di stoviglie smosse e odore di cibo. Rumori famigliari che gli ricordavano la sua infanzia e quelle lunghe mattine d’estate passate a giocare nel piccolo spiazzo erboso sul davanti, finché dall’interno la voce di sua madre lo richiamava al rito quotidiano del pasto di mezzogiorno.
  • Vieni a mangiare, tuo padre è tornato dal lavoro, non farti aspettare.
Spinse la porta ed entrò. Nell’ampia cucina una donna anziana armeggiava attorno al focolare. Lentamente la vecchia (poteva avere settant'anni) si voltò a guardarlo. Il suo volto non esprimeva sorpresa né sentimento alcuno. Era il volto di chi non si aspetta più nulla, una pietra rugosa incastonata nel grigiore della parete.
  • Finalmente siete arrivato, - gli disse - l'avevano detto in paese che venivate e allora sono venuta a far prendere aria alla casa. Già che c'ero, vi ho preparato qualcosa per pranzo. Sarete stanco.
La ringraziò un po' impacciato. Con poche frasi di circostanza.
  • Grazie, non era il caso di disturbarsi. Mi sarei comunque arrangiato…
  • Nessun disturbo, lo sapete. E poi a questa casa sono legata. Non volevo che la vedeste in abbandono. E’ ancora una bella casa. Sarebbe un peccato lasciarla andare in rovina.
Sapeva di doverle molto. Era lei che negli ultimi anni si era occupata di tutto. Una volta morti i suoi genitori, lui le aveva chiesto di curarsi della casa e delle quattro fasce sassose che la circondavano. E lei l’aveva fatto, senza chiedere nulla in cambio. Questa disponibilità lo metteva a disagio. Ora che finalmente aveva deciso di troncare ogni rapporto con quella terra e di vendere tutto, quasi se ne vergognava, non aveva il coraggio di dirglielo. Esitava.
  • Vedremo. Sono tornato proprio per sistemare le cose. Vedremo.
  • Vi lascio la chiave sul tavolo. – troncò corto la donna a mo’ di saluto - Se avete bisogno, sapete dove trovarmi.
Rimasto solo, si guardò intorno. Un calendario ingiallito pendeva dalla parete vicino all'ingresso. Su un tavolino un’antica lampada a petrolio faceva bella mostra di sé. In un angolo la vecchia macchina da cucire a pedale della madre. Dal vetro opaco della credenza tra bicchieri e tazzine spaiate lo fissavano le foto dei suoi vecchi.

Tutt'attorno a lui ancora la stessa dignitosa miseria di un tempo. Si vedeva comunque che la casa era stata tenuta in ordine da una mano femminile. Non c’era polvere sui vecchi mobili, né si avvertiva quel fastidioso odore di chiuso tipico delle case non più abitate. Lentamente si accese una sigaretta. Doveva evitare la trappola insidiosa della memoria, non farsi attirare sul piano scivoloso dei sentimenti.
  • Questione di pochi giorni si disse - ad allontanare la fastidiosa ondata dei ricordi - e poi via per sempre.
Si, via per sempre da quel mondo che forse una volta era stato anche il suo, ma che di certo da tempo non gli apparteneva più. Altra era stata la sua vita e a questo punto non si poteva certo ricominciare… che andasse pure tutto in malora. Tutta miseria in meno!


(continua)