TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


lunedì 22 aprile 2013

Il romanzo della Resistenza



Quest'anno il 25 Aprile cade in un momento politico particolarmente difficile e teso. Noi iniziamo a parlarne partendo da un'angolazione un pò particolare, quella del romanzo.

Giorgio Amico

Il romanzo della Resistenza


E' nei giorni stessi dell'insurrezione che la Resistenza diventa un tema letterario. Il 25 aprile 1945 l'edizione di Genova dell'Unità (ancora clandestina) pubblica una poesia che celebra l'insurrezione e la lotta partigiana. La qualità di questi versi è per lo più modesta e retorica e questo livello scarso caratterizzerà la massima parte della produzione poetica a tema resistenziale, ma la tendenza è chiara: la lotta partigiana segnerà il clima letterario degli anni seguenti, almeno fino al 1947, quando l'estromissione delle sinistre dal governo e l'inizio della guerra fredda cambia drasticamente il quadro politico (e culturale) italiano.

Gli anni successivi alla Liberazione vedono dunque la pubblicazione di un enorme numero di diari, cronache, racconti e romanzi in cui la Resistenza è rappresentata come un fenomeno nato dal basso, fondamento di una rinascita civile e morale del paese dopo gli anni bui della dittatura e della guerra.

Come è stato scritto da un osservatore attento della scena letteraria italiana, sembra quasi non ci sia, per chi in quegli anni vuole dedicarsi alla scrittura, altra possibilità che raccontare storie di vita vissuta, ambientate nel clima da cui si era appena usciti: la guerra, la Resistenza, un dopoguerra denso di problemi ma dove ancora forte è la speranza di un cambiamento radicale. La Resistenza sembra rappresentare una miniera ricchissima in cui sono racchiusi tutti i fatti e le esperienze che uno scrittore sente di dover raccontare. (S. Pautasso, Il Laboratorio dello scrittore – Temi, idee, tecniche della letteratura del Novecento, Firenze, La Nuova Italia, 1981)

Gli scrittori ex-partigiani, quasi tutti giovani e in larga parte impegnati politicamente, non si rivolgono ad un pubblico indifferenziato, ma ad un popolo intero passato attraverso un’esperienza storica terribile ed esaltante di cui occorre mantenere vivo e operante il ricordo. Un'ideale comunità fra autori e lettori fondata sui valori che la Resistenza incarna e che uniscono scrittori e popolo e che fa si che il raccontare la guerra partigiana mantenga, anche quando si tratta di opere di fantasia, il valore della testimonianza. (G. Falaschi, La Resistenza armata nella narrativa italiana, Torino, Einaudi, 1976)

Tentativi e speranze d'una generazione di scrittori narrati da Italo Calvino nella prefazione all'edizione del 1964 de “Il sentiero dei nidi di ragno”:

“L’esplosione letteraria di quegli anni in Italia fu, prima che un fatto d’arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo. Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani – che avevamo fatto appena in tempo a fare il partigiano – non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, “bruciati”, ma vincitori, spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi d’una sua eredità. Non era facile ottimismo, però, o gratuita euforia, tutt'altro: quello di cui ci sentivamo depositari era un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero, un rovello problematico generale, anche una nostra capacità di vivere lo strazio e lo sbaraglio; ma l’accento che vi mettevamo era quello di una spavalda allegria. (…)

L’essere usciti da un’esperienza - guerra, guerra civile – che non aveva risparmiato nessuno, stabiliva un’immediatezza di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico: si era faccia a faccia, alla pari, carichi di storie da raccontare, ognuno aveva avuto la sua, ognuno aveva vissuto vite irregolari drammatiche avventurose, ci si strappava la parola di bocca. La rinata libertà di parlare fu per la gente al principio smania di raccontare: nei treni che riprendevano a funzionare, gremiti di persone e pacchi di farina e bidoni d’olio, ogni passeggero raccontava agli sconosciuti le vicissitudini che gli erano occorse (…); ci muovevamo in un multicolore universo di storie. Chi cominciò a scrivere allora si trovò così a trattare la medesima materia dell’anonimo narratore orale: alle storie che avevamo vissuto di persona o di cui eravamo stati spettatori s’aggiungevano quelle che ci erano arrivate già come racconti, con una voce, una cadenza, un’espressione mimica.(…)

Eppure, il segreto di come si scriveva allora non era soltanto in questa elementare universalità di contenuti,(…) al contrario, mai fu tanto chiaro che le storie che si raccontavano erano materiale grezzo: la carica esplosiva di libertà che animava il giovane scrittore non era tanto nella sua volontà di documentare o informare, quanto in quella di esprimere. Esprimere che cosa? Noi stessi, il sapore aspro della vita che avevamo appreso allora allora, tante cose che si credeva di sapere o di essere e forse veramente in quel momento sapevamo ed eravamo. Personaggi, paesaggi, spari, didascalie politiche, voci gergali, parolacce, lirismi, armi ed amplessi non erano che colori della tavolozza, note del pentagramma (...) tutto il problema ci sembrava fosse di poetica, come trasformare in opera letteraria quel mondo che era per noi il mondo”.





Il primo a provare davvero a trasformare la guerra partigiana in opera letteraria fu Elio Vittorini con “Uomini e no”, scritto tra la primavera e l'autunno del 1944, nel cuore stesso degli avvenimenti raccontati, e pubblicato nel giugno del 1945 non appena l'editore ottenne dalle autorità militari alleate il quantitativo di carta necessaria per la stampa del volume.

Storia di un grande amore sullo sfondo della guerra crudele dei gappisti in una Milano livida e spettrale attanagliata dalla paura, Uomini e no resta, nonostante il lirismo di tante sue pagine, un'opera sostanzialmente irrisolta in cui, come scrive Asor Rosa, la Resistenza si presenta come la semplice occasione di un discorso, che ancora una volta trova le sue motivazioni al livello della cultura e della ricerca intellettuale. (A. Asor Rosa, Scrittori e popolo, Torino, Einaudi, 1965)

Nonostante il grande successo di pubblico del romanzo (tanto da richiedere una seconda edizione nell'ottobre del 1945), Uomini e no resta dunque un romanzo sulla Resistenza e non “il romanzo della Resistenza” ricercato da un'intera leva di scrittori-partigiani.

E' sempre Calvino a dircelo nella Prefazione all'edizione del 1964 di “Il sentiero dei nidi di ragno”, il suo primo romanzo (1947):

Come entra questo libro nella” letteratura della Resistenza”? Al tempo in cui l’ho scritto, creare una “letteratura della Resistenza” era ancora un problema aperto, scrivere il “romanzo della Resistenza” si poneva come un imperativo (…) A me, questa responsabilità finiva per farmi sentire il tema come troppo impegnativo e solenne per le mie forze. E allora, proprio per non lasciarmi mettere in soggezione dal tema, decisi che l’avrei affrontato non di petto ma di scorcio. Tutto doveva essere visto dagli occhi di un bambino, in un ambiente di monelli e vagabondi. Inventai una storia che restasse ai margini della guerra partigiana, ai suoi eroismi e sacrifici, ma nello stesso tempo ne rendesse il colore, l’aspro sapore, il ritmo (…) Posso definirlo un esempio di letteratura impegnata, nel senso più ricco e pieno della parola (…) Direi che volevo combattere contemporaneamente su due fronti, lanciare una sfida ai detrattori della Resistenza e nello stesso tempo ai sacerdoti d’una Resistenza agiografica ed edulcorata”.




Storia di un bambino (Pin) in un mondo di grandi, partecipe di avventure (e tragedie) più grandi di lui e dunque in larga misura incomprensibili, Il sentiero dei nidi di ragno è prima di tutto un romanzo-paesaggio che si dipana dai caruggi della Pigna, cuore antico di Sanremo, ai boschi di castagni delle Alpi Marittime, scritto in una lingua-dialetto di grande forza evocativa, già a partire dall'incipit:

Per arrivare fino in fondo al vicolo, i raggi del sole devono scendere diritti rasente le pareti fredde, tenute discoste a forza d'arcate che traversano la striscia di cielo azzurro carico. Scendono diritti, i raggi del sole, giù per le finestre messe qua e là in disordine sui muri, e cespi di basilico e di origano piantati dentro pentole ai davanzali, e sottovesti stese appese a corde; fin giù sul selciato, fatto a gradini e a ciottoli, con una cunetta in mezzo per l'orina dei muli”. (I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1947)

Eppure neanche “Il sentiero dei nidi di ragno” rappresenta la Resistenza nella sua totalità. Sarà lo stesso Calvino a scriverlo due anni più tardi in un bilancio apparso nel primo numero dei quaderni del “Movimento di Liberazione in Italia”:

“A chi si chiede se la letteratura italiana ha dato qualche opera in cui si possa riconoscere ‘tutta la Resistenza’ (e intendo tutta anche parlando d’un solo villaggio, d’un solo gruppo, tutto come ‘spirito’), se una opera letteraria possa dire veramente di sé: ‘io rappresento la Resistenza’, l’indubbia risposta è: ‘Purtroppo non ancora’.”

E poi, “quando nessuno più se l'aspettava”, apparve il libro che quella generazione di giovani scrittori avrebbe voluto fare. Ma questa è una storia che racconteremo in un'altra occasione.