TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


giovedì 21 febbraio 2013

La lingua è più del sangue. Parole e violenza politica




A Padova la destra di "Fratelli d'Italia" realizza uno spot elettorale pesantemente omofobo, ad Ascoli un manifesto della stessa forza politica presenta un teschio e ossa incrociate (simbolo delle Waffen SS) sui volti di Bersani e Vendola. Solo parole?

Giorgio Amico

P come parole

L'obiezione che da destra si muove a chi denuncia la violenza del linguaggio della Lega Nord o dei gruppi neofascisti (da La Destra a Casa Pound) è che in fondo si tratta solo di parole. E le parole, questo è il senso sottinteso, se restano parole, non fanno danni. L'esperienza tragica del Novecento ci racconta un'altra storia: il linguaggio politico non solo non è neutro, ma ha profonde ricadute sui comportamenti sociali. La lingua è performativa: crea comportamenti e stati d'animo, individuali e collettivi. Perchè, come scrisse Franz Rosenzweig, “la lingua è più del sangue”.

Ce lo ricorda Victor Klemperer, nel suo La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, un libro straordinario che è ad un tempo testimonianza umana e indagine scientifica sulla funzione centrale del linguaggio nella costruzione dei sistemi politici totalitari.

Figlio di un rabbino, ma convertito al protestantesimo, dal 1915 docente di letteratura francese all’università di Dresda, Klemperer (1881-1960) formatosi nell'illusione comune a gran parte della borghesia ebraica di potersi integrare nella società tedesca, vede la sua vita distrutta dall'avvento del nazismo.

Privato della cattedra nel 1935 in seguito alle leggi razziali, internato a Dresda e costretto al lavoro forzato, nel 1945 riesce a fuggire e, abbandonata la città, conduce una vita da profugo fino alla fine della guerra.

Fin dal 1932, Klemperer tiene un diario in cui annota minuziosamente ciò che accade attorno a lui. In particolare lo colpisce l’uso che i nazisti fanno della lingua mediante la trasformazione del senso delle parole e la creazione di un nuovo linguaggio che egli chiamerà LTI, Lingua Tertii Imperii.

Le parole diventano una zattera a cui aggrapparsi per non affondare: “Il diario –scrive - è stato continuamente per me il bilanciere per reggermi in equilibrio, senza il quale sarei precipitato mille volte. Nelle ore del disgusto e della disperazione, nella desolazione infinita del monotono lavoro in fabbrica, al letto degli ammalati e dei moribondi, presso le tombe, nelle angustie personali, nei momenti dell'estrema ignominia, quando il cuore si rifiutava di funzionare –sempre mi ha aiutato questo incitamento a me stesso: osserva, studia, imprimi nella memoria quel che accade, domani le cose appariranno diverse, domani sentirai diversamente: registra il modo in cui le cose si manifestano e operano”.

Fondamentale fu l'incontro, immediatamente dopo la fine della guerra, in un campo profughi in Baviera con una operaia berlinese già deportata per propaganda antinazista. Richiesta del perchè fosse stata incarcerata, la risposta della donna fu semplice: "Beh, per delle parole...".

"Fu per me un’illuminazione" - scrive Klemperer - "grazie a quella frase vidi chiaro. ‘Per delle parole...’, per questo e su questo avrei ripreso il mio lavoro sui diari. Così è nato questo libro, non tanto per vanità, spero, quanto ‘per delle parole’".

Nasce così nel 1947 La lingua del Terzo Reich, una lucida riflessione su come il male si annidi nella «normalità» di ogni giorno, negli slogan ripetuti in modo ossessivo, nelle bugie che l'uso quotidiano rende verità, nel ripetere senza più vergogna quello che fino al giorno prima era considerato impensabile.

La lingua del Terzo Reich è una lingua povera, monotona, fissata, ripetitiva e proprio per questo straordinariamente pervasiva. La LTI cambia il segno delle parole. Termini come “cultura” o “filosofia”,presentati come gli strumenti di cui gli ebrei (e i comunisti) si servono per corrompere l'animo del popolo tedesco, assumono una valenza negativa. Parole come “fanatismo” o “violenza” diventano positive acquistando valore salvifico. Il nemico è “l’ebreo”,diventato una categoria astratta su cui riversare le paure e le insicurezze profonde della società .

Concetti che ripetuti continuamente avvelenano gli animi. “Le parole – annota Klemperer - possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico”

Parole che esprimono il disprezzo per il diverso e la volontà di annientare colla forza ogni opposizione, che feriscono come pietre. Gli oppositori vengono insultati e derisi, le loro affermazioni sono messe in dubbio attraverso il sarcasmo, con l’uso delle “virgolette ironiche”(come le chiama Klemperer).

Hitler parla in modo semplice, da uomo del popolo, usando toni che vanno dal volgare al predicatorio. Si rivolge al popolo, non al singolo e così col tempo il singolo finisce col percepire se stesso solo come elemento del gruppo eletto. Egli urla, minaccia, serra i pugni: l'odio sostituisce il pensiero.

Il Lagerjargon (il linguaggio del Lager) è l'ultima, estrema manifestazione di questo processo.

“Non mi rendevo conto, e me ne resi conto solo molto più tardi, che il tedesco del lager era una lingua a sé stante (…) legata al luogo ed al tempo. Era una variante, particolarmente imbarbarita, di quella che un filologo ebreo tedesco, Klemperer, aveva battezzato Lingua Tertii Imperii (…).È ovvia l’osservazione che, là dove si fa violenza all’uomo, la si fa anche al linguaggio.”

Chi parla è Primo Levi che ci presenta un linguaggio connotato dalla violenza, dal disprezzo, dalla volontà di disumanizzare i prigionieri.

“Ci siamo accorti subito, fin dai primi contatti con gli uomini sprezzanti dalle mostrine nere, che il sapere o no il tedesco era uno spartiacque. Con chi li capiva, e rispondeva in modo articolato, si instaurava una parvenza di rapporto umano. Con chi non li capiva, i neri reagivano in un modo che ci stupì e spaventò: l’ordine, che era stato pronunciato con la voce tranquilla di chi sa che verrà obbedito, veniva ripetuto identico con voce alta e rabbiosa, poi urlato a squarciagola, come si farebbe con un sordo, o meglio con un animale domestico, più sensibile al tono che al contenuto del messaggio.Se qualcuno esitava (esitavano tutti, perché non capivano ed erano terrorizzati) arrivavano i colpi, ed era evidente che si trattava di una variante dello stesso linguaggio: l’uso della parola per comunicare il pensiero, questo meccanismo necessario e sufficiente affinché l’uomo sia uomo, era caduto in disuso. Era un segnale: per quegli altri, uomini non eravamo più: con noi, come con le vacche o i muli, non c’era una differenza sostanziale tra l’urlo e il pugno. Perché un cavallo corra o si fermi, svolti, tiri o smetta di tirare, non occorre venire a patti con lui o dargli spiegazioni dettagliate; basta un dizionario costituito da una dozzina di segni variamente assortiti ma univoci, non importa se acustici o tattili o visivi: trazione delle briglie, punture degli speroni, urla, gesti, schiocchi di frusta, strombettii delle labbra, pacche sulla schiena, vanno tutti ugualmente bene. Parlargli sarebbe un’azione sciocca, come parlare da soli, o un patetismo ridicolo: tanto, che cosa capirebbe?”.

Ma se con le parole dei nazisti si era consumata la repressione e l’annichilimento, le parole dei deportati e degli oppressi diventano strumento di speranza e percorso di salvezza.

Lo dimostra la storia di Wilhelmina “Mina” Pächter, morta a Theresienstadt nel 1944. Di lei ci resta un ricettario, scritto nel lager insieme ad altre donne, la cui vicenda è raccontata in Sognavamo di cucinare, un piccolo libro appena tradotto in italiano.

Donne che resistono alla violenza subita, che tentano di mantenere un legame con le proprie radici, con i sapori e i colori e i ricordi dell’infanzia, della famiglia, delle feste, delle usanze. Che cucinano “a parole”seguendo la memoria e non soccombono al tentativo di disumanizzarle. Invincibili perchè non perdono l’umanità e la speranza.

(Da: I Resistenti, febbraio 2013)