TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


martedì 26 giugno 2012

Un processo per stregoneria nella Val Bormida del Seicento



Solitamente si associa la caccia alle streghe al periodo più cupo del Medioevo, in realtà si trattò di una intossicazione collettiva delle coscienze in un periodo di fortissima crescita intellettuale, quello del Rinascimento, della Riforma e della rivoluzione scientifica. Quasi che la fine di un mondo e la nascita di un'epoca nuova scatenasse fantasmi che andavano esorcizzati con l'eliminazione di ogni manifestazione di diversità. 

Giorgio Amico

Un processo per stregoneria nella Val Bormida del Seicento

I primi decenni del XVII secolo furono anni di ferro, segnati da guerre, carestie, pestilenze. Infuriava in Europa la guerra detta dei trent'anni che vedeva le grandi potenze di allora, Francia e Spagna, contendersi il dominio del continente. L'Italia, debole e divisa, era diventata terra di conquista e campo di battaglia e la Valle Bormida non era certo un'oasi felice. Anzi, il fatto che il Marchesato del Finale rappresentasse la principale base mattima spagnola al Nord faceva della Valle la via principale per raggiungere Milano e la Germania dalla Spagna e dunque l''itinerario preferito dagli eserciti imperiali con tutto quello che ciò comportava. Per anni la Valle Bormida e il Monferrato furono oggetto di saccheggi e violenze continue da parte degli eserciti regolari in transito, delle truppe mercenarie al soldo dei vari signori e di bande di fuorilegge e di disperati che approfittavano della mancanza di un'autorità stabile che facesse rispettare la legge. Lo stato di devastazione delle campagne che ne conseguì provocò il crollo della produzione agricola, in gran parte rivolta all'autoconsumo, e dunque l'insorgere di frequenti carestie che indebolirono la popolazione. Si crearono così le premesse per il rapido e terribile diffondersi della peste portata in Italia dai soldati. Lo scenario e gli anni in cui Alessandro Manzoni ambienta il suo capolavoro "I promessi sposi".

Particolarmente grave risultava all'inizio degli anni Trenta del Milleseicento la situazione del tratto di Valle fra Dego e Spigno, governato dal Marchese di Garessio Francesco Spinola per i feudi di Dego, Piana e Giusvalla e dal Marchese Marco Antonio degli Asinari Del Carretto di Asti per la parte di Spigno, Rocchetta e Turpino. Nell'aprile del 1631 truppe tedesche di passaggio dopo aver devastato alcune frazioni isolate avevano imposto ai cittadini di Cairo Montenotte il pagamento di una ingente somma per evitare l'occupazione e il saccheggio del borgo. Con gli "Alemanni", come venivano chiamati quei soldati, era arrivata la peste che in particolare aveva colpito la zona di Piana, quasi spopolandola.

"In Piana - si legge in una cronaca del tempo - del continuo morono del morbo contagioso, et quello [il Marchese di Garessio Antonio Spinola] procede in non voler far nettare le case infette; il signor Marchese ha abbandonato detto locho, e, per quello si va dicendo, credo vi sijno più poche persone".

Il malcontento popolare causato dalla guerra e dalla fame e il terrore per il dilagare inarrestabile del morbo trovarono presto uno sfogo nella caccia alle streghe. In Valle si diffusero voci, portate da viaggiatori provenienti dal Milanese dove si era aperta la caccia agli "untori" accusati di diffondere la pestilenza, che i mali sofferti fossero il frutto dell'operare di streghe e stregoni agenti agli ordini del Demonio. In una società piccola e chiusa come quella valligiana i sospetti caddero su chi veniva considerato marginale, estraneo (e dunque ostile) alla comunità, quasi sempre donne di umilissima condizione il cui modo di vivere aveva per le più varie ragioni determinato sospetti e risentimenti da parte dei maggiorenti (sempre maschi) dei borghi.

Accadde così che due donne di Cairo Montenotte, Lucia e Maria Langherio fossero accusate di aver ballato col Diavolo in una località detta Pianazzo e aver ricevuto l'ordine di andare a spargere la peste nella città di Savona. Ma arrivate a San Bernardo nei pressi del luogo dove nel 1536 la Madonna era apparsa a Antonio Botta, il Demonio stesso le aveva fermate dicendo a Lucia: "Fermati, non andare più avanti, perchè Maria Vergine Madre di Dio non vuole, essendo la città di Savona sua divota, ed essa l'ha in protezione".

Una storia confusa, di cui non si sa altro e che non ha lasciato tracce storiche. Non si conservano documenti relativi ad un processo e tantomeno ad una esecuzione, nonostante la tradizione popolare parli di roghi, ma questo avvenimento, sia o no realmente accaduto, rende bene il clima esistente sul territorio e in qualche modo fa da introduzione al dramma, questo vero e documentato, che stava per svolgersi più a valle, nel paese di Spigno.
Il 9 luglio 1631 il procuratore fiscale della curia vicaria di Spigno denuncia a Giovanni Verruta, parroco di Spigno e vicario foraneo, come “alla villa di Rocchetta di Spigno siano cristiani e cristiane puoco timorati di Dio Benedetto che commettono molti disordini come inobbedienti a Santa Chiesa, massime di streghe, commettendo molti affascinamenti et stregherie contro gli ordini di Santa Madre Chiesa...”

Il parroco inizia l'indagine, si reca a Rocchetta, raccoglie testimonianze e denunce da parte di alcuni abitanti, tutti uomini, economicamente benestanti, definiti "dabbene" e dunque considerati affidabili. Queste testimonianze sono concordi nel segnalare alcune donne considerate potenzialmente sospette. Immediatamente iniziano gli arresti. Complessivamente vengono inquisite quattordici donne, abitanti in varie località della vicaria (comprendente le parrocchie di Piana, Giusvalla, Spigno, Merana, Turpino e Rocchetta e alle dipendenze della diocesi di Savona) . Sono donne di varia età e tutte hanno in comune una cosa: appartengono allo strato più povero della popolazione e si comportano in un modo giudicato strano, non consono alle regole comunitarie e ai precetti della Chiesa.

Le poverette, accusate di non partecipare con assiduità ai riti religiosi, di avere avuto commerci con il Diavolo e di "mascare", cioè di spargere il malocchio provocando con le loro arti la morte di bambini in fasce e animali e la distruzione dei raccolti, si proclamano innocenti. A questo punto, il parroco, che vuole ottenere al più presto delle confessioni, scrive a Savona al suo vescovo richiedendo il permesso di usare la tortura negli interrogatori.

“Si sono interrogate una volta - scrive in una lettera del 21 luglio - le donne incarcerate et il Dottore [l'incaricato della giustizia civile] dice che converrà torquerle.”

Il vescovo prende tempo, evidentemente qualcosa nella relazione del parroco non lo convince. Decide dunque di coprirsi le spalle, rivolgendosi ad una autorità superiore, quella del Padre Inquisitore di Genova e ordina pertanto al Verruta di non procedere ulteriormente, ma di trasmettergli gli atti dettagliati dell'inchiesta.

La posizione della Chiesa è cauta, non si vuole ripetere il caso di Triora dove qualche anno prima decine di donne erano state arrestate, torturate e (alcune) uccise, senza che l'indagine fosse poi approdata a qualcosa di concreto. Monsignor Spinola investe dunque della questione i domenicani genovesi e il Padre Inquisitore gli risponde consigliando prudenza e comunicando la necessità di trasmettere gli atti a Roma per avere lumi “come stimerei bene facesse anco VS ill.ma, avvisando intanto con sue lettere quel Signor Marchese che s'astenghi di tentar cosa alcuna contro di dette streghe, dovendo prima esser conosciuta la loro causa dal Sant'Offizio”

Agendo di conseguenza, il vescovo Spinola informa Roma, dichiarando di non aver acconsentito a dare “autorità assoluta” al vicario foraneo che con l'assistenza del giudice secolare intendeva procedere immediatamente e l'intenzione di non fare nulla “che prima non ricevi dalle SS.VV. Eminentissime espresso ordine di quello dovrò fare in causa si grave”.

Nella bozza della missiva al Santo Uffizio lo Spinola aveva scritto di trasmettere "il sommario della causa contro alcune streghe", ma la parola "streghe" risulta poi cancellata e sostituita con il più neutro termine "persone". Una correzione che la dice lunga su quanto la Curia di Savona prendesse sul serio la denuncia del parroco di Spigno.

Una cautela non gradita dal vicario, sostenuto dal Marchese Asinari, che, nonostante gli inviti ad astenersi da ogni ulteriore azione, continuò a premere su Savona per ottenere il permesso di procedere nell'inchiesta. Il fatto era che il potere politico, allarmato dal montare del malcontento popolare e della richiesta di misure drastiche e immediate contro le donne incarcerate, non intendeva andare tanto per il sottile, nè temporeggiare. Per cui, nonostante la mancata autorizzazione vescovile, a Spigno l'inchiesta andò avanti e con i mezzi spicci considerati necessari, tanto che presto iniziarono le confessioni.

In una lettera del 29 settembre 1631 don Verruta relaziona sul processo in corso nonostante l'ordine vescovile di non procedere, e comunica che dopo "hore di corda et altri tormenti" le accusate avevano confessato, "fuor d'una convinta da complici nè delitti che per opera del diavolo nega tuttavia". Dalle dichiarazioni estorte con la tortura risultava che le quattordici donne si erano date al diavolo, descritto come un bel giovane vestito di verde, che “puoi si fece adorar con farsi baciar il cullo e conobbe sodomitice carnalmente”.

Le imputate dichiaravano di aver stretto un patto con il Maligno in cui si impegnavano a non dire mai la verità in confessione, a non inghiottire l'ostia, ma tenerla per poterla poi calpestare. Le poverette avevano confessato anche di aver volato a cavallo di un bastone fino al luogo del Sabba dove “dopo aver ballato con il diavolo da esso furono tutte conosciute carnalmente sodomitice”, di aver fatto morire bambini e bestiame, di aver causato tempeste. E questo nel seguente modo: “fatto un fosseto, ivi tutte orinarono, com'anco il diavolo, indi mescolando quell'orina il diavolo vi mise un poco di polvere et, levandosi in alto fumo, si fanno nuvole da dove dicono al diavolo metti giù metti giù”. Per delitti così gravi la pena non poteva essere che la morte e questa il parroco chiedeva per tutte.

Ma la risposta della curia è di nuovo negativa. Il 3 ottobre il vescovo di Savona intima al parroco: “non innovi, né permetta che s'innovi cosa alcuna, in far essecutione contro dette incolpate, sino all'ordine e all'avviso della Sacra Congregatione”

Spinto dal Marchese, che gode dei favori del re di Spagna e che si sente dunque intoccabile, il Verruta protesta “nei luoghi circonvicini si è venuto all'essecutione contro simili bestie, il che fa stupir qui s'usi tanta difficultà...”, ma assicura comunque il rispetto degli ordini del vescovo

Passano alcuni mesi e il 31 gennaio 1632 arriva finalmente la risposta da Roma: l'inchiesta è giudicata molto difettosa, il processo contiene una moltitudine di nullità procedurali, non ci sono prove, c'è stato un uso eccessivo della tortura. Il vescovo viene invitato a far trasferire presso di sé le accusate per interrogarle personalmente senza usare alcuna forzatura:

“Di nuovo ex integro si sentano, senza suggerirle cosa alcuna, ma solo interrogarle se sappiano la causa della loro carceratione, e si devono lasciar dire da sé, perchè apparischino le contrarietà e variationi degli esami”.

A febbraio una lettera del Padre Inquisitore di Genova preme ulteriormente perchè la causa passi direttamente nelle mani della Curia savonese: “Juntanto sarà bene che VS Ill.ma avvisi quel Signor Marchese che non eseguisca cos'alcuna se prima il Sant'Officio non ha fatto la sua parte, acciò non incorresse nelle censure come già fece il Commissario di Triora...”

Richiesta che non ebbe seguito perchè il 29 febbraio Don Alfonso, figlio del Marchese Asinari, rispose con arroganza al vescovo che il problema si era risolto da solo: “Già che, per la longhezza e la dilatione, sono tutte morte, et con haver finito avanti hieri di passar la barca di Caronte, ci hanno levato a tutti questo impiccio...”.

Non c'era dunque più alcun motivo di contrasto tra potere religioso e potere civile. Diventate un problema, le donne erano state tolte di mezzo senza clamori o pubblicità inopportuna e inutili risultarono i tentativi di Monsignor Spinola di far luce su quanto era realmente accaduto nelle carceri di Spigno.

Il 10 maggio la Curia chiede al parroco di Spigno “ se dette streghe sono morte da se stesse naturalmente o vero di morte violenta e per ordine di chi e se son statte fatte morire inanti l'inhibitione che fu fatta sotto li 22 febbraio passato...”.

Il 20 giugno il parroco rispose prendendo tempo e dicendo che appena possibile “saria mandato un sommario amplissimo”.

Poi più nulla. Il "sommario amplissimo" non giungerà mai, nè verrà più richiesto o sollecitato. Quei devoti uomini di Chiesa (il vescovo di Savona, gli inquisitori di Genova, il Santo Uffizio di Roma) non insistettero: ritenevano di aver fatto comunque il loro dovere e tanto bastava. A nessuno interessava veramente di quattordici povere contadine che contavano meno di niente.