TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


sabato 5 maggio 2012

Filippo Turati, la Critica Sociale e Antonio Labriola




Concludiamo la pubblicazione di questo studio, apparso una decina di anni fa su "L'Internazionale" di Livorno. Nonostante il taglio risenta ancora di una sopravvalutazione dell'esperienza leniniana, pensiamo possa ancora avere un qualche interesse nell'ottica di un ripensamento globale dell'esperienza della sinistra in Italia.


Giorgio Amico

Alle origini del socialismo italiano
5. Filippo Turati, la “Critica Sociale” e Antonio Labriola

Nella seconda metà degli anni Ottanta la teoria marxista, fino ad allora pressocchè quasi sconosciuta, conosce una rapidissima diffusione in Italia sia nell’ambito del movimento operaio che dello stesso mondo accademico ufficiale. Nel 1886, sette anni dopo la pubblicazione del “Compendio” del Primo Libro redatto da Carlo Cafiero, esce la prima traduzione integrale del “Capitale”. Due anni più tardi viene pubblicato “Il Manifesto del partito comunista”, mentre nel 1890 Antonio Labriola, ormai in piena rottura col radicalismo, inizia a tenere presso l’università di Roma le sue lezioni sul materialismo storico. Tra il 1888 e il 1890 appaiono traduzioni di scritti di Marx, Engels, Kautsky, Lafargue e Plechanov e larga diffusione hanno articoli e opuscoli che riprendono le posizioni del Partito operaio francese e del Partito socialdemocratico tedesco. Tutto questo fervore di iniziative non manca di avere benefici effetti sul movimento operaio italiano, costretto dalla necessità di confrontarsi con le nuove idee provenienti d’oltralpe a rompere con il municipalismo e l’operaismo che tanto pesantemente ne avevano segnato i primi tentativi di organizzazione politico-sindacale. 

Filippo Turati è l’uomo che incarna questo passaggio. Di formazione culturale positivistica, proveniente come buona parte dei militanti della sua generazione dal radicalismo post-risorgimentale, assieme ad Anna Kuliscioff, esperta conoscitrice dei testi marxiani e del dibattito internazionale, egli fonda la Lega socialista milanese con il preciso intento di favorire la sprovincializzazione del movimento operaio italiano. Centrale in questo progetto è la rivista la “Critica sociale” che in brevissimo tempo diventa un fondamentale punto di riferimento per quanti, consapevoli della necessità che anche in Italia si proceda speditamente sulla via della costruzione del partito sul modello tedesco, cercano un’ispirazione per l’azione politica quotidiana in grado di andare al di là delle ormai annose dispute che travagliano il campo socialista. In questa battaglia la “Critica sociale” funge da luogo di incontro, stanza di compensazione, fra lo spontaneo movimento di lotta e di organizzazione della classe operaia e la coscienza socialista degli intellettuali più avanzati, sede di dibattito privilegiata e, come affermerà lo stesso Turati, “scuola collettiva” per i quadri della futura organizzazione politica. 

Certo, Turati non è un marxista ortodosso e la sua visione del socialismo risente, anche nei suoi interventi migliori, di un gradualismo di fondo che sotto la copertura di una “intransigenza” formale di fatto segnerà profondamente in senso riformistico il nascente partito socialista. Così come profonde sono le differenze con l’altro grande esponente del socialismo italiano di quell’epoca, quell’Antonio Labriola che mai ne accetterà la direzione politica sul movimento, tanto da scrivere ad Engels all’indomani del Congresso di Genova, a cui rifiuta di partecipare, per denunciarne il carattere “ambiguo, equivoco, elastico”. Labriola, che pure acutamente coglieva l’eclettismo del socialismo milanese, restava tuttavia prigioniero di una visione rigorosa, ma astratta, del partito, mancandogli l’esperienza viva a contatto quotidiano con la classe operaia che invece rappresenta il retroterra dell’azione turatiana. Per questo, pur raggiungendo livelli di assoluta eccellenza nell’elaborazione teorica, tanto da rappresentare un punto di riferimento fondamentale per un’intera generazione di quadri marxisti e non solo in Italia, basti pensare a Trotsky che ne “La mia vita” riconoscerà l’influsso determinante del filosofo italiano nella sua formazione, egli non riuscirà mai a giocare un ruolo politico di un qualche rilievo nel movimento socialista. 

Espressione dell’area socialmente ed economicamente più moderna del paese, Turati è il primo fra gli esponenti socialisti italiani a cogliere a fondo la necessaria dimensione internazionale del nuovo movimento operaio in gestazione in tutta Europa. Lo troviamo così, agli inizi del 1891, a rappresentare il proletariato italiano al Congresso di Bruxelles della neocostituita Seconda Internazionale. Esperienza fondamentale che lo convince della necessità e dell’inevitabilità, pena l’emarginazione del socialismo italiano dal contesto del movimento operaio internazionale, della rottura con gli anarchici, superando in tal modo definitivamente le esitazioni che per oltre un decennio avevano reso incerta l’azione politica di Costa.



Il giornale nazionale come organizzatore collettivo

Preparato da almeno un anno di intenso lavoro di ricucitura fra i vari gruppi da parte della Lega socialista di Filippo Turati, il 2-3 agosto 1891 nella sede del Consolato operaio di Milano si tiene il “congresso operaio italiano” con rappresentanze di tutte le principali correnti del movimento socialista e radicale, comprese quella anarchica e quella repubblicano-collettivista. La gestione dei lavori congressuali risultò fin da subito difficile per l’eterogeneità dei partecipanti e per la violenta opposizione degli anarchici e di parte degli operaisti alla definizione di un chiaro piano di azione politica del proletariato e alla costituzione di un partito dei lavoratori che fosse qualcosa di più di una semplice federazione di società operaie. Nonostante questo, grazie al paziente e tenace lavoro di mediazione svolto da Turati e dagli altri esponenti della “Critica sociale” il congresso si concluse con l’approvazione di uno Statuto e di un Programma comune e con la convocazione di lì a un anno di un nuovo e questa volta definitivo momento di dibattito per verificare l’esistenza delle condizioni minime per la costituzione di un’organizzazione politica nazionale della classe operaia. 

Uscire dal ristretto ambito delle lotte corporative, unificare la classe su scala italiana, costruire un giornale nazionale capace di fungere da organizzatore collettivo, fondare il partito di classe: questi i problemi fondamentali che si pongono in quel momento i militanti d’avanguardia e non solo in Italia, basti pensare al “Progetto di programma del Partito Operaio Socialdemocratico Russo” scritto in carcere da Lenin a cavallo fra il 1895 e il 1896. Quello che distingue il movimento operaio italiano è semmai la confusione teorica e il pressapochismo organizzativo contro cui, come si è visto, tentano da angolazioni diverse e con differenti strumenti di battersi sia la “Critica sociale” che Antonio Labriola.

In preparazione del congresso il 31 luglio a Milano esce il primo numero del settimanale “Lotta di classe, Giornale dei lavoratori italiani”, con a grandi lettere sulla testata riportato il motto di Marx “Proletari di tutti i paesi unitevi!” Diretto nominalmente da Camillo Prampolini, ma di fatto redatto principalmente da Turati e dalla Kuliscioff, il giornale mostra fin dai primi numeri un respiro assai più largo dei fogli socialisti dell’epoca, una capacità nuova di abbracciare interessi e temi non soltanto locali e di parlare un linguaggio comprensibile a tutti i proletari qualunque fosse il loro ambito di lavoro o il luogo di residenza. Con grande chiarezza il settimanale riassumeva i caratteri specifici del movimento socialista nella lotta per la socializzazione dei mezzi di produzione da ottenersi mediante la conquista del potere politico. A questo proposito l’editoriale del primo numero, dopo aver tributato il giusto riconoscimento al valore dell’attività svolta dal vecchio Partito Operaio, scriveva:

Gli scioperi, le organizzazioni di resistenza, le cooperative , ecc., sono eccellenti mezzi di agitazione, eccellenti mezzi di reclutamento per formare l’armata proletaria, ma guai al movimento operaio, guai all’avvenire della classe operaia se essa pone in questi mezzi tutta la sua speranza, i suoi scopi finali (…) La radice di tutte le vessazioni, di tutti gli abusi, per i quali il salariato è una nuova forma dell’antica schiavitù, deve trovarsi nel monopolio dei mezzi di produzione e nella direzione della società nelle mani di privilegiati. La socializzazione di questi mezzi è la soluzione del problema. Trascurando questo scopo, la questione operaia resta una semplice questione borghese, una piccola questione di accomodamento fra i servitori e i padroni. Questo è il metodo con cui i padroni hanno interesse a considerarla”.

Nonostante il linguaggio usato non abbia l’incisività e il rigore scientifico delle pagine leniniane, la messa in guardia contro una visione meramente tradeunionistica della lotta di classe è chiarissima, come in modo nettissimo è espressa l’esigenza che il giornale nazionale funga da organizzatore collettivo della classe.

La questione operaia, come questione soltanto a sè, nel suo piccolo significato, nel suo significato borghese, è stata abbandonata per sempre: si è capito che la questione separata e allontanata dall’ideale socialista è un controsenso; si è capito che il movimento operaio e il socialismo sono due aspetti di un medesimo fenomeno: il primo è il fatto, il secondo la coscienza, l’anima del fatto: separarli vuol dire distruggerli (…) Quest’opera di fusione, di elaborazione coscienziosa, questa opera di educazione e di vivificazione del partito, non può essere completa se al lavoro particolare, anche nei giornali secondari, non si aggiunge per completarlo e coordinarlo il lavoro di un organo centrale che non sia il giornale di una o di un’altra città, di uno o di un altro mestiere, ma sia il giornale del partito stesso.”



Il congresso di Genova

In esecuzione del mandato del congresso milanese dell’anno precedente il 14 agosto 1892 si riuniscono a Genova, alla Sala Sivori, oltre 400 rappresentanti di società operaie, leghe di resistenza, cooperative, comitati elettorali, circoli socialisti, repubblicani e anarchici. Sono presenti, con l’eccezione clamorosa di Antonio Labriola che snobba il congresso non considerandolo sufficientemente rappresentativo, i nomi più noti di oltre un decennio di lotte operaie e democratiche: Giuseppe Croce, Costantino Lazzari, Antonio Maffi, Camillo Prampolini, Andrea Costa, Leonida Bissolati e naturalmente Filippo Turati e Anna Kuliscioff. 

Fin dai primi interventi fu evidente che il fragile compromesso con gli anarchici raggiunto un anno prima a Milano non poteva reggere. Nonostante un ultimo, disperato tentativo unitario di Andrea Costa, che deluso e stanco abbandonerà immediatamente dopo il congresso, gran parte dei delegati concorda sulla necessità di rompere definitivamente con gli anarchici che strenuamente si oppongono all’ipotesi di costituire un vero partito politico che finalmente sappia andare oltre l’ormai asfittica formula dei “circoli operai affratellati”. Il giorno dopo 197 delegati guidati da Turati si riuniscono a parte e deliberano la costituzione del Partito dei Lavoratori Italiani che l’anno successivo a Reggio Emilia assumerà il nome di Partito socialista. 

Il programma, opera soprattutto di Turati che con una serie di emendamenti aveva profondamente trasformato l’originario testo di Maffi infarcito di ovvietà democraticistiche, nei fatti riprende le linee portanti del programma della Lega socialista milanese e rappresenta una prima definizione dei principi basilari del socialismo sancendo la nascita di un partito autonomo della classe operaia che accoglie, almeno sul piano dei principi, la dottrina marxista. Certo, il programma uscito dal congresso di Genova soffre ancora notevolmente dell’estrema povertà teorica che caratterizzava – e , detto per inciso, caratterizzerà sempre, fatta salva la parentesi felice del primo periodo di vita del PCd’I - il movimento operaio italiano. Di più, il partito che nasce alla Sala dei Carabinieri genovesi presenta già in modo avvertibile quegli elementi di opportunismo che dovevano negli anni successivi ed in particolare nel periodo giolittiano segnare indelebilmente l’intero suo percorso politico. Ne è prova la discussione sfociata poi nella risoluzione sulla questione dello stato dove fortissimo è l’eco del programma adottato al congresso di Erfurt della socialdemocrazia tedesca (1891) profondamente segnato dall’illusione di un utilizzo dello stato borghese, conquistato e diretto dal partito operaio, in funzione della costruzione del socialismo.Resta comunque il fatto che, come in sostanza noterà Engels in risposta alle note polemiche di Labriola, anche la classe operaia italiana aveva ora il suo partito e questa era la cosa importante.