TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


venerdì 17 febbraio 2012

Giacomo Checcucci, Giorgio Morandi e Farfa


Torniamo a occuparci di Futurismo e di Farfa, "poeta record nazionale futurista" come si definiva lui, con questo intervento di un giovane e promettente ricercatore savonese.

Giacomo Checcucci

Giorgio Morandi e Farfa



Giorgio Morandi e Vittorio Osvaldo Tommasini, in arte Farfa, sono due artisti diversissimi e radicalmente differente è stata ed è la ricezione della loro opera da parte dell’ufficialità accademica. La loro arte, una agli antipodi dell’altra, non ha praticamente nulla in comune, e il successo mondiale di Morandi e la clandestinità intellettuale di Farfa stabiliscono uno scarto di fama per ora incolmabile. Un elemento in comune nonostante tutto esiste: i due artisti sono perfettamente coevi. Nato nel 1890 Morandi, nato nel 1879 o nel 1881 Farfa, morti entrambi nel 1964 il primo di malattia, il secondo investito da una motocicletta.

Giorgio Morandi è considerato uno dei più grandi pittori italiani del ‘900. Dopo un percorso accademico di successo e una prima fase vicina alla pittura “metafisica” di De Chirico e Carrà, Morandi intorno al 1920 si ritira nella sua casetta e ritorna ad una concezione più classica dell’arte. Vivrà tutta la vita nel suo appartamento/studio a Bologna di Via Fondazza n. 36 con la madre e le tre sorelle, conducendo un’esistenza tanto abitudinaria quanto cocciutamente dedicata alla pittura. Coerentissimo il tragitto che lo porta dalla “metafisica” al gruppo animatore della rivista Valori Plastici e infine alla riscoperta della classicità connessa al cosiddetto “ritorno all’ordine”, reazione tradizionalista allo spirito d’avanguardia e in particolar modo futurista. Studia la luce e i volumi con una caparbietà proverbiale e affina la tecnica pittorica quasi esclusivamente esprimendosi in nature morte. Passa quasi 50 anni in casa a dipingere tre bottiglie, un lume o un barattolo su un tavolino in scala di grigio e marrone. Pochissimi i ritratti e di minore rilevanza i paesaggi. Grande riflessione sulla luminosità e la disposizione delle forme nello spazio. L’estro è ridotto ai minimi termini. Bottiglie, lumi e barattoli in scala di grigio e marrone su un tavolino da salotto degli ospiti di una casa medioborghese. Questo è il massimo di fantasia che questo paese richiede ad un artista per celebrarlo come pittore simbolo di un secolo.

Farfa, Soubrette (1927)

La sua non è stata una fama critica postuma: intellettuali del calibro di Cesare Brandi, Roberto Longhi e Giulio Carlo Argan lo sostengono in vita, appoggiano il suo percorso artistico solitario, la sua ostinata e ossessiva ricerca, le sue brocche e i suoi vasi sempre uguali, nella sostanza, per decenni. Sebbene il soggetto sia sempre lo stesso, sta nelle impercettibili differenze di luce, colore e di tocco tra un dipinto e l’altro, il motivo di una stima così unanime. Più traspirazione che ispirazione, più mestiere che genialità. I suoi quadri nel corso dei decenni hanno visto incrementare in modo progressivo ed esponenziale le cifre dei prezzi, sempre più astronomici e sempre più incomprensibili.


Farfa era creatività pura: gioco, immaginazione e divertimento. Nasce a Trieste, vive a Torino, Savona e Sanremo ma gira l’Italia grazie alla sua vivacità umana e intellettuale. Non è un pittore con una seria formazione accademica, ma un autodidatta di vero talento con guizzi geniali. Etichettato giustamente o meno come pittore naïve e poeta illetterato se non analfabeta, non si è mai curato di dimostrare il contrario dedicandosi allo studio della tecnica pittorica o della retorica. Aderisce al Futurismo di cui sarà animatore in ogni sua città e al quale sarà fedele tutta la vita da una posizione eterodossa e sui generis che lo porterà a ricoprire, in virtù del suo spirito anticonformista, il ruolo di “futurista-antifuturista”. Il Futurismo celebra infatti la velocità, la macchina e la guerra e Farfa deride quei valori tanto quanto quelli tradizionali. Il suo futurismo, il suo avanguardismo è principalmente religione del nuovo.

In vecchiaia non si adagia sugli allori, anzi sui metalli visto che la sua corona futurista ottenuta in qualità di Poeta Record Nazionale è un casco d’alluminio. Aderisce quindi in tarda età ma alla Patafisica (la scienza delle soluzioni immaginarie) di cui è sempre stato rappresentante inconsapevole e rifiorisce grazie alla frequentazione tra Albisola e Milano delle giovani leve dell’arte italiana, tra cui l’amico Enrico Baj. Confrontandosi con i nuovi movimenti estetici esprime, anche nella sua ultima parte dell’esistenza, un’inventiva senza briglie. Una trovata dietro l’altra per 50 anni quindi, gli stessi impiegati in maniera così diversa da Morandi. Poesie sui tubi e sugli affari, quadri fatti con il domino o le monete, “cartopitture” con lime e limoni, botti e bottoni. Inoltre cartelli pubblicitari, abiti di moda, progetti cinematografici, canzoni, ceramiche, fotografie e opere teatrali. Mai ha avuto il successo meritato né in vita né dopo la morte pur possedendo ben oltre il minimo sindacale della fantasia: solo il critico/gallerista ribelle Arturo Schwarz sembra avergli concesso lo spazio e il ruolo che merita. A livello economico Farfa si è sempre barcamenato, grazie all’aiuto della paziente moglie e di alcuni buoni amici, visto che le sue opere non hanno mai avuto un prezzo tale nel mercato dell’arte da garantirgli una serena tranquillità economica.


Morandi, Natura morta (1947)

Farfa diceva dei “naturamortisti”, e quindi di Morandi, che occorre portare sulle loro tombe quadri con fiori e non fiori veri. Chi non ha saputo dare sfogo all’immaginazione non si merita, neppure da morto, la natura da copiare. Non si chiede quindi un reintegro di Farfa nella storia ufficiale, un ricollocamento della sua figura nella tradizione della pittura italiana del ‘900 in postazioni più alte di quella che occupa ora. Non si merita un torto così grosso. Né nessuno pretende, sia chiaro, un declassamento di Morandi. Rimane però l’interrogativo: la cultura di stato, nel delineare i sommersi e i salvati, nell’assegnare le poltrone in prima fila, i posti in piedi a fondo sala e relegare gli altri nomi nel sottoscala della storia dell’arte, è così monoliticamente giusta? Non che siano insindacabili i pareri dei singoli professori in qualsiasi realtà culturale, ma risulta evidente che l’elaborazione complessiva di un sistema di valori qualitativi di una data materia forse sia troppo osservata come un assioma insindacabile, una presa di posizione indiscutibile e un’impalcatura religiosa. Si dirà che i cambiamenti in sede critica esistono e sono sempre esistiti e che da sempre le “azioni borsistiche” dei pittori, degli scultori come dei poeti salgono e scendono nei libri di testo e negli studi critici. Esattamente come capita nel mercato. Ma il concetto sottinteso è pur sempre che l’accademia, suscettibile di errori, si approssimi gradualmente, nel suo giudizio complessivo, ad un’idea di verità, la qual cosa pensando a Farfa e a Morandi può parere così bisognosa di un ribaltamento radicale da sembrare completamente inverosimile. Il mercato però non colma o controbilancia questa lacuna: le opere di Farfa hanno oggi un costo molto esiguo rispetto a quelle di Morandi e nulla suggerisce un’inversione di rotta.


(Da: http://ccristoforoastengo.myblog.it/archive/2012/02/09/giorgio-morandi-e-farfa-di-giacomo-checcucci.html)