TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


martedì 5 aprile 2011

Pietre che cantano: Rainer Kriester



In memoria di Rainer Kriester (1935-2002). Scultore, ma più di tutto, uomo libero.




Angela Ravetta




Incontri con uomini straordinari: Rainer Kriester




Lasciata la costa, saliamo fra oliveti e alberi di pino. Ad Arnasco ci fermiamo a bere in una vecchia trattoria di campagna con i tavolini di legno, mentre gli altri avventori mangiano pane e salame. Sulle facciate delle case ci sono murales un po’ stinti con orribili fiorellini azzurri. Dopo Vendone sbuchiamo in cima alla collina. Ci fermiamo e scendiamo dalle moto. Una griglia a rete chiude una spianata coperta d’erba secca sulla quale s’innalzavano obelischi di pietra, occhi di Horus enormemente ingranditi che fissano il mare in lontananza. Sono una trentina disposti in circolo. Ci aggrappiamo alla recinzione cercando di sbirciare. Un giovane lavora con un trapano. Ci vede e ci viene ad aprire. S’indovina che un tempo quel corpo è stato forte, forse massiccio. Ora pare scavato dall’interno, tornato ad essere ragazzo. Si siede di fronte ad una pietra. Sta incidendo una serie di numeri. Davanti a sé ha un libro aperto, sciupato dalla polvere.




Noi ci aggiriamo fra le sculture. Un portale di pietra rosa incornicia il mare verso Finale nel punto in cui, d’estate, sorge il sole. Il costone a fianco dell’altura forma un canyon. Abbiamo rallentato i passi e la nostra curiosità ci pare stonata, sacrilega, come se potessimo disturbare. Lo scultore depone il trapano e ci guarda. Indica il libro aperto: “Parla anche lui di terra rossa e di terra nera. Chissà se conosceva l’importanza di questi termini per gli Egizi. Io ne sono affascinato. Ecco la terra rossa!” Ed indica il costone argilloso che spicca contro il verde scuro della pineta. “E quella è la terra nera!” Le fiamme degli incendi hanno carbonizzato la macchia mediterranea in lunghe strisce morte. “Ci vorranno anni perché si riprenda.”




È Rainer Krister. Mi scrive il suo nome con un segno appuntito, come se stesse incidendo la carta. Ci aggiunge il suo indirizzo. Io non so chi sia né perché i monoliti si trovino in quel luogo. Vuole che gli legga qualcosa dal libro. È “Lavorare stanca” di Pavese. Ascolta con grand’attenzione come per imprimere il suono nella memoria. Gli dico: ”Pavese è vissuto a Torino dove c’è un importante Museo Egizio e tutti i ragazzini ci vanno. Senz’altro ci sarà stato anche lui.” Pare stupito. Noi sfioriamo le pietre, osserviamo i numeri incisi, cercando di cogliere un ordine, una progressione. Non sembra esserci alcun metodo. “È pietra rosa di Finale, ma ormai la cava è esaurita. Questi sono gli ultimi pezzi.” “Ed ora come farà?” “Non so.” Accenna un movimento con la mano come ad intendere che cercherà più lontano, ma in un tempo futuro. Le pietre sono tagliate come se un coltello affondasse in un blocco di manna.




“Sono tedesco, nato nella Germania orientale. Vivo a Berlino. Ho sempre sognato di scolpire all’aperto ed ora ne ho l’opportunità. Potevo finire in Toscana come hanno fatto tanti miei connazionali ma non mi sarebbe andato bene. Quella è un’Italia per i turisti. Qui è stato difficile, nulla è facile. I liguri non s’interessano del mio lavoro, e mi va bene così.” Kriester fa tutto da solo, come noi lo abbiamo trovato quel giorno. Il suo desiderio di scolpire la pietra nasce dal bisogno di compiere tutte le fasi della lavorazione. Non ultimo della schiera d’artisti solitari che hanno realizzato il loro sogno, per le sue opere Heinz Ohff conia la definizione: ”Folclore di una stirpe sconosciuta” che Kriester ama e ritiene azzeccata.




C’è in lui un sentimento profondo d’appartenenza all’umanità e il desiderio di esprimerlo. Un quadro di Van Gogh: “La strada per Tarascona” è per lui l’essenza dell’ispirazione, il contatto intimo fra la materia e l’artefice senza mediazioni ed aiuti. Il pittore ha rappresentato se stesso che va a Tarascona per dipingere all’aperto. In una vecchia villa di Grunewald, in Wissmannstrasse 6, a Berlino, Kriester lavora, quando il clima lo rende possibile, in giardino. Aveva iniziato come pittore ma, ben presto, lo spazio della tela diviene per lui una prigione, un vincolo. Inizia così a fare oggetti tridimensionali: terrecotte a colori violenti, grandi mani di legno e di pietra arenaria, e nel 1972, bronzi. È il periodo delle teste trafitte, bendate, incise. I visi sono chiusi da elmi e da scafandri. Solamente le orecchie molli e cesellate come conchiglie sporgono all’esterno per ascoltare tutto ciò che è percepibile. Due di queste teste del periodo berlinese insieme a disegni di sua mano appaiono in una mostra che Torino gli ha dedicato nell’estate del 2003: “Forma, materia, segno, 5 scultori tedeschi nel giardino di palazzo Cisterna”.


Il giardino è ombroso, fresco, e le grandi teste si trovano in un cortiletto di raccordo fra la corte esterna e il giardino interno.Sono lucide, lisce, perfettamente fuse. Non si può fare a meno di ricordare i grandi testoni di Lenin, i busti di bronzo di Stalin nella vecchia Unione Sovietica. Kriester li sfregia, li tortura, lega il viso con funicelle che impediscono la vista. L’uomo che lo scultore tedesco rappresenta non vuole vedere o ciò che vede lo ferisce. Ma fin d’allora, fin dall’epoca delle teste, è forte in lui il richiamo della scultura all’aperto in un paese mediterraneo. Abbandonata l’idea della Spagna, Kriester nel 1982 affitta dal comune di Vendone la collina di Castellaro con la torre saracena e vi si stabilisce. Lo scopo è la creazione di un gruppo di manufatti stilizzato, diremmo astratto, in cui i numeri incisi rappresentino la matrice originaria, i simboli che costituiscono la realtà. I monoliti di Castellaro guardano verso Albenga, nella piana in cui si eleva la Cattedrale. Il fiume Centa, trascinando i detriti, l’ha interrata. Quella è un’opera collettiva, testimone del lavoro degli artigiani diretti dal maestro, nata dalla fede e compiutasi nelle certezze di una civiltà intrisa di Cristianesimo.




Per Kriester è impossibile che una comunità d’artisti lavori con uno stesso scopo e con purezza d’ispirazione, non crede nelle installazioni, nelle opere collettive.Solamente l’artefice, sulla strada di Tarascona, porge orecchio alla materia che chiede di essere sbozzata, di rappresentare la contemporaneità. I grandi occhi di Horus fissano le stelle, gli stargate di pietra si proiettano sul mare, le scale di marmo bianco di Carrara sono il nostro Calendario, un percorso ascensionale tutto occidentale ed europeo. Nulla può ritornare di ciò che è finito, tutto è frantumato. Castellaro è detta la Stonehenge italiana forse per quel sole che sorge nella porta rosa al solstizio d’estate. Ci rappresenta? Forse nella sua frantumazione, nella mancanza di un progetto, in quest’artista solitario che lavora in faccia al mare.