TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


domenica 13 marzo 2011

Note per un'estetica del disgusto


Terza parte di “Spettri situazionisti”, relazione tenuta al convegno "L'internazionale situazionista alla prova del tempo" svoltosi nel 2008 presso l'Università di Napoli "Federico II". Le parti precedenti sono state postate il 3 e il 6 marzo.


Pasquale Stanziale

Note per un'estetica del disgusto

3.1
Nel 1959 Debord ha ventotto anni, da sette abita a Parigi, "una città che era così bella che molti hanno preferito vivervi da poveri piuttosto che trascorrevi un’esistenza agiata da qualche altra parte… adesso non ne rimane niente … Chi altro potrebbe sapere le fatiche e i piaceri che abbiamo conosciuto in questi luoghi dove tutto è diventato così malvagio" (G. Debord 1978). In questi anni parigini è divenuto definitivo e circostanziato in Debord il rifiuto della realtà sociale del suo tempo. Debord vede la piccola borghesia caratterizzata da una ”..dignità infelice..” (G. Debord 1959), e vede quartieri “..estranei alla sua storia..”, avverte la necessità di una critica globale della corrente idea di felicità, insomma Debord è già a buon punto nel suo “..assalto al cielo..” (G. Debord 1978).
Debord e i suoi amici in quegli anni esercitano “il dubbio sistematico” e sono interessati unicamente ad una “espressione sufficiente di loro stessi”, vogliono “reinventare tutto ogni giorno; impadronendosi totalmente della loro vita..” (G. Debord 1978). "Questo gruppo era ai margini dell’economia. Tendeva a un ruolo di puro consumo, e innanzitutto di consumo libero del suo tempo. Era così interessato direttamente alla variazioni qualitative del quotidiano, ma sprovvisto di ogni mezzo di intervento su di esse .. "(G. Debord cit).
Così scrive Debord all’inizio degli anni ‘60, sulla strada della decisa idea di realizzare il viaggio della sua vita attraverso la critica sistematica della società capitalistica unitamente alla ricerca di “continue situazioni poetiche da conoscere..” (G. Debord 1993). E ciò già struttura alcuni elementi di quella che proviamo a definire un’estetica del disgusto debordiana.

3.2
Dai primi film di Debord emergono certamente i suoi tratti personali, come giustamente sostiene Jappe (1999). Una persona, Debord, molto selettiva nelle amicizie, senza nessuna concessione ai poteri e agli intellettuali della sua epoca, una persona che ha costruito accuratamente la sua solitudine piuttosto aristocratica, certo non scevra da una chiara megalomania nell’edificazione del suo personaggio. "La mia cerchia è stata composta solo da quelli che sono venuti da sé, e hanno saputo farsi accettare. Non so se esista un altro che abbia osato comportarsi come me, in questa epoca. Bisogna anche riconoscere che la degradazione di tutte le condizioni esistenti è appunto apparsa allo stesso momento, come per dare ragione alla mia follia singolare.. "(G. Debord 1998).



3.3
La sensazione di disgusto che prova Debord per le società capitalistiche avanzate- e che si traduce in dichiarate forme di disprezzo- è stata ampiamente esaminata da vari autori. Tra tutti ancora Jappe (cit.) che esamina questo aspetto in modo esauriente, sia sottolineando l’estrema coerenza personale di Debord, sia illustrando l’al di qua del disgusto ovvero il background di Debord con i riferimenti culturali relativi. Debord viene da Jappe accostato a personaggi come Karl Kraus, con cui ha in comune il disprezzo per lo spettatore, colui che ha delegato la sua vita, qualcosa di inconcepibile per Debord.
Altro personaggio chiamato in causa è Paul Gondi, Cardinale di Retz che rappresenta per Debord un ambito di gratificanti identificazioni in cui vediamo la prassi della teoria che innesca storiche avventure unitamente al ruolo di deus ex machina in ambiti strategici sofisticati che andrebbero al di là della teoria. E quindi il noto riferimento al barocco o meglio a quella che si potrebbe definire una certa lettura debordiana del barocco. Centrali, riteniamo, il concetto barocco di tempo che, come abbiamo già visto, è elemento importante della sensibilità debordiana- e situazionista in generale- e il passaggio alla realizzazione dell’arte. Una certa lettura, quindi, dato che il barocco (accostato spesso all’epoca attuale – tra tutti F. Berardi 1994) è anche cambiamento comunicativo, trionfo dell’artificio e della decorazione. Il trionfo di un sogno (divino) che subordina la realtà (P. Stanziale 1995), il trionfo della particolarità e dell’empirismo dell’evento (G. Deleuze 1953). Il barocco è portatore di un principio contingente che scopre un mondo in cui diventa evanescente ogni unità politica e religiosa. Con esso prende forma un’arte sempre più individualizzata e tesa verso eversioni formali. Un’arte propria dell’aristocrazia, connessa al suo potere.
Ma Debord, tutto sommato, è pure una specie di controriformista ed è anche “un uomo che sa mettersi in mostra” secondo i precetti del suo spesso citato gesuita spagnolo del ‘600, B. Graciàn (che, per un ironico deturnamento, è oggi molto stimato dai dirigenti d’azienda USA).
"Vi sono uomini generosi nei quali il poco riluce molto, e il molto abbaglia addirittura. Quando l'ostentazione si sposa all'eccellenza, può passare per un prodigio…
L'ostentazione delle proprie qualità completa e integra molto, e dà ad ogni cosa una seconda vita, soprattutto quando la realtà la sostiene. Il Cielo che dà la perfezione, prepara la via all'ostentazione, perché se essa dovesse rimaner sola, risulterebbe intollerabile. Anche nel mettersi in mostra occorre arte: persino le cose più eccellenti sono condizionate dalle circostanze, e non sempre possono risplendere; così l'ostentazione stessa riesce male quando è fuori di tempo. Nessuna dote richiede d'essere meno affettata di questa; ed è l'affettazione quella che la rovina, perché vive sempre sul confine della vanità, e questa sul confine del disprezzo. Dev'essere tenuta bene a freno perché non faccia cadere nella volgarità, e il suo eccesso è alquanto discreditato presso gli uomini saggi…. È una grande abilità, quella di non svelare la perfezione tutta in una volta, ma di andarla scoprendo a poco a poco, come si fa con le carte da gioco, e crescendo di mano in mano, sì che un ornamento sia la premessa e la promessa. di un altro ancor più grande, e l'applauso con cui è salutato il primo lasci in tutti l'aspettazione per quelli che verranno dopo." (B. Graciàn 1991).
Così scriveva Graciàn nel ‘600 e ci sembra che il Debord stratega abbia fatto tesoro degli insegnamenti del gesuita spagnolo anche nell’ambito di un’estetica del disgusto cui cerchiamo di accennare, ciò che ha i suoi risvolti anche riguardo alle relazioni interne all‘IS. A tale proposito ci anche sembra utile riportare quanto scriveva di Debord Asger Jorn (1964)
"Dalla fine della guerra non ho trovato nessun altro che Guy Debord che, ignorando tutti gli altri problemi che potrebbero imporsi all’attenzione, si concentrasse esclusivamente, con una passione maniacale e con la capacità che ne deriva, sul compito di correggere le regole del gioco umano secondo i nuovi dati che si impongono a noi nella nostra epoca. Egli si è dedicato, con precisione, ad analizzare questi dati, e tutte le possibilità che oramai si escludono e quelle che si aprono, senza alcun attaccamento sentimentale per un passato che si è già abbandonato da sé. Egli fornisce la dimostrazione di queste correzioni e indica le regole che ha deciso di seguire. Invita anche gli altri, che vogliono avanzare nell’avanguardia di questo tempo, a seguir e queste nuove regole, ma rifiuta radicalmente di imporle, con qualcuno dei numerosi procedimenti e prestigi dell’autorità, a coloro che non ne vedono ancora l’interesse. Su di un punto preciso nondimeno egli è temuto, giustamente, da tutto l’ambiente artistico. Non accetta che qualcuno possa fregarsene di lui facendo finta di accettare quelle regole e poi utilizzandole come gettoni di un altro gioco: quello della mondanità, nel senso più lato – dell’accordo con il mondo dato. In casi simili, egli è senza indulgenza; e tuttavia si può dire che questi problemi di compromissione o di sottomissione si sono posti, un giorno o l’altro, come fine di quasi tutte le sue relazioni. Egli ha lasciato queste persone definitivamente. Ne ha trovate delle altre. È il motivo per cui quest’uomo di una generosità non comune si è trovato incasellato, nella mitologia mondana del dopoguerra, come l’uomo senza alcuna pietà."

3.4
In effetti Debord proprio per la sua rigorosa coerenza non ha fatto altro che ritornare continuamente, anche se a livelli diversi, sugli assunti di fondo che caratterizzarono la sua eroica avventura lettrista degli anni ’50, quando già aveva tracciato un cerchio di demarcazione tra lui- e i suoi quattro amici- e la società del tempo ritagliando il suo ruolo. "I giochi più belli dell'intelligenza non sono niente per noi. L'economia politica, l'amore e l'urbanismo sono dei mezzi che dobbiamo dominare per la risoluzione di un problema che è anzitutto di ordine etico. Niente può dispensare la vita dall'essere assolutamente appassionante. Noi sappiamo come fare. Nonostante l'ostilità e le falsificazioni del mondo, i partecipanti ad un'avventura temibile da tutti i punti di vista si rassomigliano, senza indulgenza. Consideriamo generalmente che al di fuori di questa partecipazione non c'è modo onorevole di vivere." (Potlach 17-18 1985 1996). E successivamente esplicita che "quasi tutto quel che succede nel mondo suscita la nostra rabbia e il nostro disgusto, tuttavia sappiamo sempre di più divertirci di tutto "(Potlatch 156 in A. Jappe cit.). Si è potuto anche parlare, a proposito di Debord, di un'estetica della sconfitta con riferimento al fatto che “quasi che ogni successo contenga un elemento di insopprimibile volgarità” (M. Perniola 1998): ciò che, in gran parte, giustifica la sua polemica contro i pro-situ.





Pasquale Stanziale è nato a Cascano di Sessa Aurunca in provincia di Caserta, laureato in Filosofia, docente di Storia e Filosofia nei Licei, collabora con Università ed Agenzie di Formazione. Ha al suo attivo un’ampia pubblicistica nel campo delle Scienze Umane. Collabora con la rivista Civiltà aurunca per la parte socioantropologica. Tra le sue pubblicazioni Omologazioni e anomalie (Caserta 1999), ricerca divenuta un classico degli studi locali, Mappe dell’alienazione (Roma 1995), saggio di Filosofia politica, la traduzione del best-seller la Società dello spettacolo di G. Debord (Viterbo 2002). Ha curato anche Il Manuale di saper vivere ad uso delle giovani generazioni di R. Vaneigem (Viterbo 2004) ed una antologia di autori situazionisti (Viterbo 1998). Tra le pubblicazioni più recenti Cultura e società nel Mezzogiorno (Caserta 2007).