TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


martedì 22 giugno 2010

Corsivi: dichiarazioni pericolose



Franco Astengo

Dichiarazioni pericolose


Da un lato la Presidentessa della Confindustria che vuole un “Mediterraneo economia emergente” e dall'altro l'Amministratore Delegato della Fiat che parla di “scioperi e nazionale”: in entrambi i casi emerge prepotente la voglia del “ritorno all'indietro”, dello spingere al massimo l'acceleratore del neo-liberismo in crisi sul terreno non solo dello sfruttamento intensivo del “lavoro vivo”, dell'entrata in scena dell' “esercito di riserva”, di un incremento delle diseguaglianze economiche e sociali (tutti gli ingredienti delle “economie emergenti”, magari accompagnati sul piano politico da una bella stretta autoritaria) ma anche dell'arroganza padronale più pura, della mancanza di rispetto per i singoli e il collettivo, dell'assenza di diritti quale presupposto per l'affermazione di una sorta di rovesciamento di diritto “naturale” che non è certo quello di Grozio ma inteso come diritto inalienabile della capacità di sopraffazione degli “altri” da parte del ricco e potente.
Il quadro è quello della “lotta di classe”, quella che noi a sinistra abbiamo abbandonato in nome dell'abbandono delle ideologie: ideologie portate avanti con ferocia dagli “altri”, dai “padroni”e dai loro corifei. Il tutto sta dentro alla conclamata necessità di abbattere i lacci e lacciuoli della Costituzione Repubblicana, sotto vari aspetti ed anche su quello della possibilità di inaugurare un “diritto di impresa” tipo jungla (magari d'asfalto) costringendo pallidi imitatori dei “padroni”a sottostare al meccanismo impietoso del “darwinismo sociale” ( se passa la modifica dell'articolo 41, dopo quanto tempo conteremo i morti e i feriti della battaglia imprenditoriale, con fallimenti, perdita di posti di lavoro, debiti, drammi singoli e collettivi?). Insomma: c'è poco da illudersi per quanti anche dalle nostre parti pensano alla “modernità”, il tema vero è quello del “ritorno all'indietro”; ai tempi dei crumiri chiamati da fuori per sostituire gli scioperanti; ai temi dei padroni delle ferriere, oggi in guanti gialli, perché usano le tecnologie avanzate e si muovono sul terreno della globalizzazione.
E' questa anche la lezione di fondo che ci arriva da Pomigliano: un “ritorno all'indietro” quale tendenza apparentemente inarrestabile proprio sul piano delle relazioni sociali e dei rapporti di forza: la “modernità” si esprime proprio a questo modo con l'attacco ai diritti fondamentali, al riguardo dei quali non sarebbe retorica ricostruirne l'itinerario di acquisizione, la fatica, il sangue, il muoversi di tutto un popolo, l'occupazione delle fabbriche e delle terre, Modena, Melissa, Montescaglioso, Portella della Ginestra.
Il Sindacato è chiamato a riflettere e a toccare con mano la realtà del post – neocorporativismo (che stiamo vedendo all'opera in chi lavora per il Re di Prussia, raccogliendo i sì per l'accordo di Pomigliano): quel neocorporativismo direttamente legato, sul piano politico, al maggioritario e all'alternanza che doveva servire (dall'accordo Trentin – Amato del '92 in poi) alla classica funzione di “calmiere” del conflitto sociale ( oggi Cofferati riscopre la logica perdente dei piccoli gruppi disperati: sarebbe stato bene pensarci prima).
Il “calmiere” del conflitto sociale (un meccanismo avviatosi fin dagli anni'80, con la limitazione del diritto di sciopero, espressione anche quella della “Filosofiat” all'indomani della marcia dei 40mila) ha portato i suoi frutti: rinuncia al conflitto, limiti alla capacità di internazionalizzazione del sindacato (pensiamo al discorso sull'Europa sacrificato alla retorica della globalizzazione), trasformazione in “patronato”, anche sul terreno che avrebbe richiesto una organizzazione di natura ben diversa (pensiamo agli immigrati e ai precari), abbandono definitivo dell'idea di “sindacato soggetto politico”, cristallizzazione delle divisioni in sigle con la rappresentanza diretta sui posti di lavoro affidati alle RSU (una volta ci era capitato di scrivere: il Sindacato può esistere su tre punti, il contratto nazionale, la scala mobile, i delegati eletti per gruppo omogeneo su scheda bianca); limiti e difficoltà dei sindacato di base, in particolare nella funzione pubblica, di assumere una funzione di carattere generale, di vera e propria necessaria “confederalità”. Su queste basi, trascurando il discorso più propriamente “politico”, emerge l'incapacità di contrapporsi all'iniziativa rampante del padronato e della destra.
Ci permettiamo di enunciare ancora un aspetto di questo “caso italiano” ormai rovesciato, alla coda della situazione europea: il mondo del lavoro organizzato, in Italia, è ridotto a tre categorie (metalmeccanici, scuola, funzione pubblica); la siderurgia se la sono mangiata scelte sbagliate; l'elettronica è finita perché il “grande democratico” ha deciso di fare l'editore; la chimica l'ha divorata la “questione morale” (ben prima di Tangentopoli, pensiamo alla “madre di tutte le tangenti”); l'energia è preda delle “sette sorelle” e di una insensata voglia di privato; l'agroalimentare ha finanziato scudetti alla Lazio e Coppe Europee al Parma.
Forse abbiamo usato troppo l'accetta nel descrivere lo stato di cose in atto; il fatto è che l'accetta, i padroni, la stanno usando contro di noi.


Franco Astengo, politogo e storico della sinistra, collabora con la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Genova. E' autore di numerosissimi saggi apparsi su giornali e riviste.