TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


martedì 29 dicembre 2009

Marco Gobetti, Genesi di un'opera teatrale


Marco Gobetti

Marco Gobetti

Voglio un pappagallo: Genesi di un'opera teatrale


“ (…) La comparsa del cinema ha obbligato a ripensare radicalmente il teatro.
Da questo ripensamento il teatro è uscito non soltanto liberato da alcune servitù (ad es. essere soltanto testimone o divertimento), ma anche “ritrovato” nelle sue caratteristiche fondamentali e originarie. Non unicamente spettacolo, nel senso di rappresentazione di qualcosa.
Sul piano della semplice rappresentazione l’interesse del teatro può essere solamente virtuosistico (farlo dal vivo, sotto gli occhi del pubblico) o voyeuristico (vedere gli attori in carne ed ossa).
Il teatro si riscopre fatto magico e sociale.
Il magico sono sicuro che ci sia (l’energia della presenza…), ma è difficile parlarne.
Il sociale è il rapporto vivo, bidirezionale scena-platea e viceversa.
Quindi: avvenimento, imprevisto, improvvisazione, continua evoluzione dello spettacolo.
Non soltanto rappresentazione: favola, modo di essere…”
(Gian Renzo Morteo – IPOTESI SULLA NOZIONE DI TEATRO e altri scritti – Centro Studi Teatro Stabile di Torino - pag. 139)



Le basi

Per raccontare una storia a qualcuno bisogna sentirne l’esigenza fortissima: è la storia che fa nascere tale esigenza in colui che la racconta, perché in qualche modo quella storia ha a che vedere non solo con la sua vita, ma anche con quella di chi la ascolta.
Se chi la vuole raccontare è un attore, deve porsi due utili domande:
A quale pubblico vuole raccontare la storia?
Quella storia riguarda anche la vita del pubblico?
Nel caso in cui la risposta data dall’attore alla prima domanda sia “Ad un pubblico quanto più vario possibile”, per rispondere affermativamente alla seconda domanda non ha che un mezzo: ricordare ciò che ha vissuto e vivere. Ricordare e vivere, badando però all’epoca in cui è: alle vite altrui, quelle che incontra e con cui si relaziona, senza trascurarne nessuna. Per quell’attore deve valere sia la vita di chi gli appare sulla pagina di un giornale, sia quella di sua madre; sia quella di chi incrocia per la strada e gli lascia un sorriso o un viso ingrugnito, sia la vita di un amico trovato che gli lascia ore di parole e di emozioni; sia gli occhi fuggenti del vecchietto ben vestito che fruga nel bidone dell’immondizia, sia gli occhi bollenti di una donna chiusa nel buio di una coperta; sia chi ama o ha amato; sia chi odia o ha odiato, anche solo per un attimo. Ogni vita è fatta di attimi e di ogni vita valgono i dettagli, tutti. E quindi anche solo uno conta.
L’attore si accorgerà così che, per potere rispondere affermativamente alla seconda domanda, inizierà a riscrivere la storia. Quella storia sarà allora un pezzo della sua vita in mezzo ai pezzi di tante altre vite: lo sarà non solo per ciò che racconta, ma anche per ciò che vivranno insieme l’attore e gli spettatori in occasione di ogni nuova replica. Quella storia sarà per ciò che accadrà e, nell’essere detta e vissuta, non cesserà mai di essere riscritta.




La drammaturgia

Per tre mesi ho scritto. Per farlo ho cercato di mantenere fede ai miei propositi: ho vissuto e ho ricordato ciò che avevo vissuto, badando alle altre vite intorno a me. Scrivevo nella stessa stanza dove avrei poi preparato lo spettacolo. Da quella stanza uscivo per andare a fare la spesa di giorno, per raggiungere amici la sera o per andare a prendere un treno; in quella stanza rientravo per cucinare, per leggere, per dormire. E per scrivere. In quella stanza e fuori da quella stanza vivevo.
Ho scritto una storia con la piena coscienza del fatto che – non appena l’avessi conclusa – avrei cominciato a farla a pezzi, per riscriverla oralmente.
Ho scritto una storia consapevole del fatto che stavo costruendo uno strumento, qualcosa da usare per fare altro.

Lo strumento

Le avventure di un uomo che ha sicuramente un segreto, un pezzo della sua vita.
Una storia ampia, spesso dalle forti tinte giallistiche, ricchissima di dettagli, con infiniti colpi di scena, aperta (struttura mista: stellare - a percorso - a stratificazione).
Una storia con linguaggio a tratti in prosa a tratti in versi.
Un pre-testo insomma, trenta cartelle scritte in piena libertà, senza alcuna pretesa di compiutezza: senza una fine e un inizio certi.
Per iniziare a riscrivere oralmente la storia sentivo il bisogno di un obiettivo drammatico, da individuare cioè all’interno della storia stessa.

L'obiettivo

Capire chi è veramente quell'uomo. Scoprire l'identità del protagonista, per prepararmi a rivelarla.


Lo sviluppo

Avrei riscritto la storia utilizzando il racconto a soggetto per sintesi: la ricerca di un canovaccio partendo da una storia scritta, un riassunto orale.
Per valutare il mio lavoro in divenire, decisi che avrei utilizzato una videocamera.
Durante la prima giornata di lavoro lessi il testo ad alta voce, ripromettendomi di farlo per la prima ed ultima volta: un gesto simbolico, un utile funerale del testo scritto. Subito dopo provai a fare il primo riassunto: non riuscii a dire una parola e rimasi immobile per mezz’ora, finché mi avvicinai alla videocamera e la spensi. E’ difficilissimo parlare a qualcuno che non c’è. Ma è anche utilissimo stare zitti. E mezz’ora è un silenzio fin troppo breve. Decisi di cambiare metodo.
Rilessi in quei giorni Gian Renzo Morteo: “(…) Credo ancora adesso che prima di usare le parole dall’alto del palcoscenico si dovrebbe saper esprimere in silenzio tutto quanto possono dire le parole. Penso che si debba andare nel deserto per molto tempo prima di mettersi a predicare”.
Ogni sera leggevo le trenta cartelle. Al mattino mi riassumevo nella mente la storia. Durante il giorno la riassumevo a chi mi capitava di incontrare. Frequenti le cene organizzate per avere nuovi interlocutori, oltre che per mangiare in compagnia. Racconto a soggetto per sintesi: si trattava di ricordare solo l’essenziale (per ogni pagina scritta bastava a volte qualche parola detta). Erano racconti fatti a tavola, sotto i portici, bevendo un caffè: chiunque, ovunque, può ascoltare un racconto. E chiunque, ovunque, può decidere di raccontare o di stare zitto: sovente stavo zitto o parlavo di tutt’altro. Così per un mese, fino a cogliere l'essenza della storia. Mi accorsi di avere ottenuto l’essenzialità quando il canovaccio minimo raggiunto ricominciò a lievitare in parole nuove, completamente diverse da quelle scritte in precedenza.
Cominciai a raccontare la storia che cresceva: la durata del racconto e la scelta dei particolari dipendevano rispettivamente dal tempo a disposizione e dall'interlocutore (fondamentale il livello di conoscenza reciproca e la qualità delle sue reazioni). Agli stimoli provenienti dai momenti in cui raccontavo si aggiungevano stimoli dati dai momenti di vita fra un racconto e l'altro. In questi momenti – mentre mangiavo una bistecca o guardavo la televisione o guidavo o ascoltavo musica – non solo incrociavo altre vite, ma tornavano anche in forma di immagini i visi delle persone a cui avevo detto la storia. Quelle immagini mi fecero nascere pian piano la consapevolezza che loro facevano parte della storia, per una ragione semplicissima: loro ascoltavano quella storia e senza di loro la storia moriva. Decisi che i protagonisti dello spettacolo sarebbero stati due: un uomo che raccontava la propria storia e l’altro che la ascoltava e lo interrogava sulla sua identità. Capii così chi era quell’uomo che raccontava la storia: era qualcuno - o qualcosa - che tutti conoscevano e che molto aveva a che fare con ben noti meccanismi di potere. Non era più solo il linguaggio a mutare: era la vicenda a mutare e a calarsi in una forma.
Affiancai alla videocamera un grande specchio e iniziai la preparazione solitaria: avrei fatto crescere la storia continuando nello spazio scenico l’improvvisazione a soggetto sul canovaccio ricavato per sintesi.



Lo spazio e gli oggetti

Nella stanza in cui mesi prima avevo scritto le trenta cartelle, coprii con un telo nero una parete e di fronte ricavai nove metri quadrati di spazio scenico.
Non avevo altro spazio a disposizione: decisi di sottolineare quella costrizione, circoscrivendo il quadrato in cui agivo con quattro fari (uno per ogni angolo) puntati verso l’alto e un faro spiovente dal soffitto. Essendo da solo mi toccava di azionare il mixer, se non altro per accendere e spegnere i fari: il mixer finì così in scena e la luce - nonché alcuni cambi della medesima - divennero parti della storia e azioni dello spettacolo. La vicenda continuava a cambiare. In scena finì pure una sedia sottratta al tavolo poco lontano dallo spazio scenico. Poi un gancio da macellaio appeso ad un filo.
Per ultimo comparve un fantoccio fatto di una camicia, un paio di pantaloni e un attaccapanni: una sorta di uomo vuoto, essenziale, insieme ai fari, per la rivelazione finale.

Lo spettacolo

Le prove nella stanza in cui vivevo durarono due mesi, nei quali la storia continuò a cambiare.
Lo spettacolo cambiò pure durante le ultime tre prove prima del debutto, alle quali assistette ogni sera un pubblico di tre persone (non ce ne stavano di più).
Il cambiamento drammaturgico più sostanziale avvenne dopo il debutto. Lo spettacolo è tuttora in movimento. Non è che non sia ancora compiuto: ogni volta è compiuto in modo diverso.