TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


lunedì 21 dicembre 2009

Un poliziotto senza illusioni nella Cuba castrista


L.P. Fuentes

Da sempre consideriamo la letteratura poliziesca (l'unica forma ancora possibile oggi di comédie humaine) un rispecchiamento della decadenza della moderna società urbana. Cuba, presunta società alternativa, non fa eccezione. Lo dimostrano i romanzi di Leonardo Padura Fuentes di cui riprendiamo un articolo autobiografico recentemente apparso su l'Unità.


Leonardo Padura Fuentes

Il mio poliziotto nato dalle crepe di Cuba e dal crollo del Muro


Venti anni fa, durante uno dei capovolgimenti più insperati della storia, quando nel mondo ancora rimbombavano i colpi che avevano abbattuto il muro di Berlino, creai il personaggio di Mario Conde. Come avviene in quasi tutti i concepimenti (tranne quelli assolutamente divini), solo dopo alcune settimane riuscii a cogliere le sue prime palpitazioni, trasformate nelle esigenze letterarie, concettuali e biografiche che avrebbero dato peso ed entità al personaggio: come a qualsivoglia creatura. Fu sul finire del 1989 che con la mia cara Olivetti - mio padre la usa tuttora - cominciai ad avvicinarmi all’idea da cui avrebbe avuto origine il romanzo Passato remoto (pubblicato nel 1991), nel quale nasce Mario Conde. Quello fu un anno complesso, difficile e, alla lunga, fecondo; un anno che - senza che nemmeno lo immaginassi - avrebbe cambiato il mondo, avrebbe cambiato la mia visione di quel mondo e mi avrebbe permesso - grazie a questi cambiamenti sia interni che esterni - di trovare la strada per scrivere il romanzo che ha anche cambiato il mio rapporto con la letteratura. Per me il 1989 fu un anno di crisi di identità e di creazione. Da sei anni le vicissitudini dell’intransigenza politica mi avevano spinto a lavorare per un quotidiano pomeridiano, Juventud rebelde, e finii per diventare giornalista. Oggi è curioso pensare che ciò che i padroni del destino avevano immaginato come un castigo - il passaggio da una rivista culturale a un quotidiano - si sia invece trasformato in un premio: più che un semplice giornalista ero diventato un punto di riferimento, un esempio di ciò che, con sforzo e immaginazione, si poteva ancora fare entro i margini, sempre stretti, della stampa ufficiale cubana.

Il prezzo che avevo dovuto pagare per dare vita a questo «nuovo giornalismo» cubano, che fiorì negli anni ottanta, fu senz’altro alto, benché, alla lunga, proficuo: pressato com’ero da un lavoro giornalistico che implicava lunghe ricerche e un’accurata scrittura di storie smarrite sotto gli orpelli della Storia nazionale, dalla conclusione del mio primo romanzo, Fiebre de caballo (Febbre da cavallo, finito nel 1984 e pubblicato nel 1988) e dai racconti del volume Según pasan los años (Così come passano gli anni, pubblicati nel 1989 ma scritti tempo prima) non avevo più ripreso a scrivere letteratura. Se a questo sforzo si aggiunge l’anno estenuante che tra il 1985 e il 1986 ho trascorso in Angola in qualità di corrispondente, si ha subito il quadro d’insieme sia dei fattori per i quali vissi sei anni come giornalista, sfiorando a malapena la letteratura, sia della ragione per la quale, nel 1989, una forte crisi mi spinse a lasciare il giornalismo quotidiano e a cercarmi un angolo propizio che mi permettesse di avere il tempo e la capacità mentale di tentare un ritorno alla letteratura. Ma quello fu un anno durante il quale suonarono molte campane. La società cubana aveva vissuto un’estate particolarmente calda: in quei mesi erano stati celebrati due processi storici, le cause 1 e 2/89, nelle quali vennero prima giudicati e poi anche fucilati diversi alti quadri dell’esercito e del Ministero degli Interni (incluso addirittura il ministro, morto nella sua cella) per corruzione, narcotraffico e tradimento della patria. Quei fatti ci permisero di «scoprire» qualcosa di fondamentale, qualcosa che fino a quel momento non immaginavamo neanche, vale a dire che la struttura politica, militare e ideologica cubana, in apparenza monolitica, era invece attraversata da una profondissima crepa: generali, ministri e figure importanti del partito si erano rivelati dei corrotti (sebbene questo lo sapessimo già) e persino dei narcotrafficanti. Nell’ottobre dello stesso anno accadde anche qualcosa di molto più personale ma non per questo meno fondamentale per lo stravolgimento delle mie concezioni sulla vita… e sulla letteratura.
Visitai per la prima volta il Messico, invitato a un incontro di scrittori di romanzi polizieschi, benché io non ne avessi ancora scritto alcuno. Durante quelle giornate messicane, mentre compivo 34 anni, feci in modo di conoscere un luogo altamente simbolico e storico, che tuttavia per la mia generazione era stato solo un silenzioso mistero, e, ancora peggio, un pericoloso tabù: la casa di Coyoacán nella quale era vissuto e morto León Trotski, «il rinnegato». Ricordo ancora oggi la commozione per quella visita alla casa-fortezza (divenuta più tardi Museo del Diritto di asilo), dalle mura quasi carcerarie tra le quali si era rinchiuso uno dei leader della Rivoluzione di Ottobre per cercare di salvare la sua vita dal livore assassino di Stalin - dal quale non riuscì comunque a scappare, come non ci riuscirono altri venti milioni di sovietici e decine di migliaia di cittadini di altre nazionalità; qualcosa che né io né tanti altri sappiamo ancora con certezza. Ma l’impressione più viscerale e profonda lasciatami da quella visita alla casa-mausoleo di Trotski fu la sensazione che il dramma consumatosi in quel luogo cupo mi stesse sussurrando all’orecchio un messaggio allarmante: sono necessari il crimine, l’inganno, il potere assoluto di un uomo e la sottrazione della libertà individuale per far sì che prima o poi tutti possiamo accedere alla più bella ma utopistica delle libertà collettive? Di ritorno a Cuba, pochi giorni dopo quella visita tanto rivoltante quanto istruttiva, fummo testimoni di qualcosa di impensabile, di qualcosa che solo un mese prima, nella casa di Trotski, non avrei immaginato che sarebbe potuto accadere: in modo pacifico, come una festa di libertà, i tedeschi buttavano giù, fisicamente e politicamente, il Muro di Berlino, annunciando - solo allora fummo in grado di percepirlo nitidamente - la fine del socialismo in Europa.
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La Habana

Senza l’intrecciarsi di tutti questi avvenimenti, che riempirono la mia vita materiale, spirituale e ideologica, di incertezze piuttosto che di certezze, forse non avrei mai affrontato come una sfida alle mie capacità letterarie e all’ambiente cubano circostante, la scrittura del mio primo romanzo poliziesco, del quale composi i primi paragrafi proprio durante quelle settimane. Per fortuna, all’inizio del 1990 - anno non meno storico e rivelatore del precedente - fui in condizione di lasciare definitivamente il giornale e cominciai a lavorare come capo redattore di una rivista mensile di cultura, La Gaceta de Cuba; lavoro che mi consentiva di avere almeno tre, e talvolta addirittura quattro, giorni liberi a settimana; tempo che dedicai a scrivere il mio romanzo poliziesco. (...) Preso atto della stagione disastrosa che viveva allora il romanzo poliziesco cubano - divenuto, nella quasi totalità dei casi, un romanzo di compiacenza politica, essenzialmente ufficiale e con scarsa volontà letteraria - era chiaro che non potevo cercare i miei punti di riferimento tra i miei colleghi cubani; al contrario, se mai il loro esempio doveva servirmi come monito per non precipitare nei loro stessi abissi. Ma c’era un altro tipo di romanzo poliziesco, di carattere sociale e di qualità letteraria, anche in lingua spagnola, di scrittori che vivevano nel mio tempo, ma non nella mia terra. Questo fu il mio punto di riferimento, il mio primo obiettivo. Una volta delineati alcuni punti della narrazione che avrei sviluppato nel romanzo - la scomparsa di un alto funzionario cubano, persona apparentemente senza macchia, ma in realtà un corrotto, opportunista e cinico - mi imbattei in un’esigenza creativa dalla cui risoluzione dipendeva l’esito del progetto - ricco di ambizioni letterarie - nel quale mi stavo tuffando: il personaggio che avrebbe supportato il peso della storia, consegnandola ai lettori. (...)
Questo personaggio con il quale mi prefiggevo di lavorare e sul quale gravava questa grande responsabilità concettuale e stilistica, aveva bisogno di molta carne e molta anima per divenire qualcosa di più di un semplice e adeguato interprete delle realtà proprie di un contesto così singolare come quello cubano. Per creare la sua umanità, una delle decisioni più facili e logiche che presi fu quella di caratterizzare il mio protagonista come un uomo della mia generazione, nato in un quartiere come il mio, che aveva studiato nelle stesse scuole in cui io avevo studiato; dunque, un personaggio con esperienze di vita simili alle mie. Tuttavia, quell’«uomo» doveva avere una caratteristica che a me è totalmente estranea, che addirittura aborro: doveva fare il poliziotto. La verosimiglianza, che secondo Chandler è l’essenza stessa sia del romanzo poliziesco sia di qualsivoglia altra narrazione realistica, implicava questo mestiere per il mio personaggio, dal momento che in un contesto come quello cubano sarebbe stato impossibile - nonché incredibile – situare un investigatore che per conto proprio e in solitario partisse alla ricerca di un assassino. In questo modo, la vicinanza della voce narrante e della componente biografica alla mia vicenda personale, veniva oscurata da un modo di agire, di pensare e di porsi che a me è completamente sconosciuto. Fu proprio mentre ero lì, intento a risolvere questo dilemma, che forse Mario Conde esalò il suo primo respiro come creatura viva: l’avrei costruito come una sorta di antipoliziotto, un poliziotto letterario, verosimile solo entro i margini della finzione narrativa, impensabile nella realtà poliziesca.

La mia condizione di scrittore mi consentiva questo gioco, e decisi di sfruttare l’opportunità. Mentre scrivevo i primi paragrafi di Passato remoto - quell’istante di genesi nel quale Conde, svegliandosi da una brutta sbornia che gli fa scoppiare la testa, risponde alla telefonata del suo capo - si schiusero dunque le porte di quella creazione letteraria. Da quel momento in poi intrapresi la sua reale costruzione: oltre che dedito all’alcool, sarebbe stato amante della letteratura (scrittore «rimandato» più che frustrato), con gusti estetici piuttosto precisi; nonostante alcuni aspetti da eremita, avrebbe fatto parte di una tribù di amici nella quale la sua umanità trovava un complemento e che gli consentiva di esercitare una delle sue religioni: il culto dell’amicizia; oltre che nostalgico, sarebbe stato anche intelligente, ironico, tenero e romantico, senza appoggi né ambizioni materiali. In più, anche cornuto; in fin dei conti, sarebbe stato un poliziotto investigativo, non un repressore. Questo antipoliziotto fece la sua comparsa in Passato remoto, senza neanche immaginare (e tanto meno lo immaginavo io) che sarebbe diventato il protagonista di una serie che conta ormai sei romanzi. Ma sin dal primo respiro questo personaggio porta nei suoi geni quella contraddizione che ho cercato di sfumare: perché in realtà Mario Conde non è mai stato un vero poliziotto: semmai, si potrebbe dire che ha fatto il poliziotto di mestiere, e ha sofferto per questo.

Mantilla, novembre 2009

(Da: L'Unità. 07 dicembre 2009)

[Leonardo Padura Fuentes è nato all’ Avana nel 1955. Giornalista e scrittore, è diventato famoso con i romanzi polizieschi del ciclo “Le quattro stagioni”, che hanno come protagonista il tenente Mario Conde. Per Fuentes, il poliziesco è solo un pretesto per parlare della società cubana e fare un esame di coscienza della sua generazione. Benché molto critico verso il decadimento della società cubana e l’attuale regime, ama profondamente l’Avana: “Non c’è altro posto dove vorrei vivere.”, dice “Vivere all’Avana per uno scrittore è un privilegio. Pochi altri posti al mondo hanno da offrire un simile concentrato di storie, personaggi, luci, colori, musica e tradizioni. Eppoi, io l’Avana la amo. Profondamente.” ]