TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri
(1790)


lunedì 14 dicembre 2009

"Esperando Sevilla", ultimo romanzo di Bruno Marengo

Bruno Marengo
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Scrittore di grande talento, capace di ricostruire con sensibilità raffinata (non scevra di ironia) ambienti e atmosfere di una Liguria ormai dietro l'angolo, Bruno Marengo ritorna in libreria con il suo ultimo romanzo, "Esperando Sevilla". Una scoperta, forse, per molti che lo conoscono solo come uomo politico e amministratore locale. Per noi, la conferma di una capacità di scrittura rara nell'attuale panorama letterario ligure.
Pubblichiamo qui di seguito il testo dell'intervento del Prof. Sergio Giuliani in occasione della presentazione del volume recentemente tenutasi presso la Sala Rossa del Comune di Savona.
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Sergio Giuliani
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"Esperando Sevilla"


Il romanzo di Bruno Marengo,autore non certo nuovo al mondo delle lettere,potrebbe definirsi un “Bildungroman”, ovvero un romanzo di formazione. Ma sarebbe un’etichetta limitativa, perché il fine dell’opera non è tanto l’autoraccontarsi, sempre un poco compiaciuto ed isolazionista, quando avviene, ma, più sottilmente e con vena inquieta, un bilancio di una generazione che ha vissuto anni particolari, appena appena lontani dai danni estremi dell’ultimo conflitto mondiale.

Fino ad oggi, Marengo aveva scritto romanzi su un ecumene ridotto, personale, briosamente ravvivato, ma che talvolta scivolava nel localistico. Romanzi e racconti sostenuti da un buon “mestiere”, vivaci ed impalcati su vicende che muovevano dal baule autobiografico e si reggevano come su quinte teatrali di fantasia assolutamente libera.

Non è così,questa volta. Marengo ha scritto, probabilmente, il libro cauchemar de toute sa vie, che poco ricorre alla fantasia creatrice di scene e molto a dati biografici depurati come l’osso di seppia e usati concretamente come pezzi di un gioco sulla scacchiera.

Vivissimi e vivacissimi, i ricordi,ma sempre dominati razionalmente. Interessa all’autore non soltanto lo spiegarsi dello scrivere che non abbia altra funzione che “di/vertire”, ma l’indagare quietamente il senso della vita, studiata nel rivelarsi delle pulsioni giovanili, nelle “Siviglia” metaforiche che ognuno di noi ha sognato ed alle quali non è mai giunto (o, forse, le ha raggiunte ed oltrepassate senza riconoscerle).

Due le idee,gli espedienti letterari vincenti nel romanzo: il disappassionare i ricordi (che Cardarelli magistralmente definisce” …quest’ombra troppo lunga del nostro breve passato”) avvicinandoli e rimontandoli fuor d’ordine cronologico proprio perché alleggeriti anche da una fresca autoironia che tempera e misura l’elegia,non facendola traboccare e il giocare coi personaggi,al tempo stesso riconoscibili e truccati.

Il protagonista,Archiloco, è in realtà un deuteragonista,perché il personaggio più rutilante è il Duca,che sta ad Archiloco come don Chisciotte,cosciente del mondo che ha d’attorno e pur legato al fascino del “de/lirio” o Mercuzio shakespiriano che scherza con la sua morte, starebbero ad un saggio gatto del focolare. Al Duca si addicono lo scoppiettare dei fuochi d’artificio; ad Archiloco il tono medio (non scrittore di romanzi,ma giornalista sportivo) e il “buonsenso” con cui rinuncia alla prospettiva di vivere con la ragazza che ama e che per lui ha saltato il baratro delle convenzioni familiari)

“….conosci quale “ritmo” regola gli uomini.” scrisse l’antico poeta greco. Che sia saggezza o condanna a un tono di necessità “medio” è questione da riferire agli dèi, ed è a questo proposito che Marengo innesta la riflessione per cercare quel che Manzoni definisce “il sugo di tutta la storia”

Aver amato e vissuto in modo non formale,aver attraversato le origini (non la deviazione spesso delinquenziale) di quel vasto respirare di un’epoca alla ricerca di fiato che fu il Sessantotto, per l’Italia nato a Torino dalle lotte degli operai della Fiat e dalle assemblee di palazzo Campana, ora che del gran fuoco si vede chiara e ridotta soltanto la brace, ebbe un senso? Se sì, quale?

“Esperar” spagnolo significa aspettare per naturale gravità (Machado scrive “donde acaba el pobre rio, la immensa mar nos espera”!), ma è consentito dall’ambiguità, dote altissima del linguaggio, intendere l’italiano “sperare”.

Che cos’è Siviglia? Una scarrozzata di ragazzi nella città, la sua, del Duca che non fa altro che decantarla o un ideale civico, quello che risplendette per i giovani nel Sessantotto che si mossero per diffondere la giustizia e la libertà su scala planetaria, alimentandosi direttamente e con mai abbastanza lodata ingenuità alle fonti delle utopie politiche e delle religioni egualitarie.
A “Sevilla” , oasi sperata di tutte le gioie del vivere, non è stato possibile recarsi, per la serie dei contrattempi alcuni seri, altri d’indolenza.”Pareva facile gioco…” direbbe Montale ed ora, nella prima come nell’ultima pagina del romanzo, nulla è più definitivo. “Sevilla” non è venuta da noi, come quando da ragazzi credevamo che la Corsica, un giorno, navigasse verso di noi. Il Duca è ammalato, ma sempre arguto ed intelligentemente autoironico: Archiloco è appena appena ripiegato su se stesso; il Duca fa il blagueur su quanto avrebbe incontrato a “Sevilla”; Archiloco è un poco sorpreso, un poco affascinato, come lo spettatore che non esce subito dal teatro e aspetta, restando ancora in poltrona, di metter ordine e “ritmo” nella propria vita.
Le ragazze d’antan, mai presenze stilnoviste, ma creature sensibili e che si erano trovate a vivere uno straordinario mutamento dei costumi, sono ormai stelle fisse con cui rimane viva una malinconica, ma autentica complicità. “Zuccherino” (così il Duca ha ribattezzato la ragazza di Archiloco) ha atteso la sua “Sevilla”, ovvero che Archiloco scrivesse “il” libro che ha in mente: invece scrive cronache sportive: i due si sono allontanati senza tragedia e si ha l’impressione che Archiloco si sia mosso sempre per motivazioni non sempre fondate, assolute; più spesso casuali.

Bruno Marengo ha scritto un bilancio ad occhi asciutti della sua e della nostra vita, dove la mèta forse non è stata raggiunta, forse è stata oltrepassata, forse neppure c’era. Si è viaggiato con alterna convinzione, per tappe casuali, come toccò ai pellegrini di Serendipity, ma rimane il ricordo tenace e non tormentoso, che ci riporta ad un’aria di culla, dolce come sono rassicuranti le scelte giuste e l’intero iter della nostra vita.



Bruno Marengo "Esperando Sevilla"
Editore De Ferrari, Genova 2009
Prefazione di Francesco Gallea, postfazione di Franco Astengo